«QUADRAGESIMO ANNO»
LETTERA ENCICLICA
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE.
«Per l’instaurazione dell’ordine sociale cristiano,
nel quarantesimo anniversario dell’Enciclica “Rerum novarum”».
PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE
Introduzione.
Quarant’anni sono passati dalla pubblicazione della magistrale Enciclica “Rerum novarum“, di Leone XIII, Nostro Predecessore di felice memoria e tutto il mondo cattolico, mosso da un impeto di calda riconoscenza, ha preso a celebrarne la commemorazione con uno splendore degno di sì memorabile documento.
Vero è che a quell’insigne testimonianza di sollecitudine pastorale il Nostro Predecessore aveva già in certo modo spianata la via con altre Encicliche, come quella sui fondamenti della Società umana, la famiglia cioè ed il venerando Sacramento del matrimonio (Enc. “Arcanum“, del 10 Febbraio 1880); sull’origine del potere civile (Enc. “Diuturnum“, del 29 Giugno 1881); sull’ordine delle sue relazioni con la Chiesa (Enc. “Immortale Dei“, del 1° Novembre 1885); sui principali doveri del cittadino cristiano (Enc. “Sapientiae Christianae“, del 10 Gennnaio 1890); contro gli errori del socialismo (Enc. “Quod apostolici muneris“, del 28 Dicembre 1878) e per la prava dottrina intorno all’umana libertà (Enc. “Libertas“, del 20 Giugno 1888) ed altre di simil genere, dove Leone XIII aveva già espresso ampiamente il suo pensiero. Ma l’Enciclica “Rerum novarum“, rispetto alle altre, ebbe questo di proprio che, allora appunto quando ciò era sommamente opportuno ed anzi necessario, diede a tutto il genere umano norme sicurissime, per la debita soluzione degli ardui problemi della società umana che vanno sotto il nome di questione sociale.
Verso la fine del secolo XIX, il nuovo sistema economico da poco introdotto e i nuovi incrementi dell’industria erano veramente giunti a far sì che la società in quasi tutte le nazioni apparisse sempre più recisamente divisa in due classi: l’una, esigua di numero, che godeva di quasi tutte le comodità in sì grande abbondanza apportate dalle invenzioni moderne; l’altra, composta da una immensa moltitudine di operai i quali, oppressi da rovinosa penuria, invano s’affannavano per uscire dalle loro strettezze.
A tale condizione di cose non trovavano certo difficoltà ad adattarsi coloro che, ben forniti di ricchezze, la ritenevano effetto necessario delle leggi economiche e perciò volevano affidata soltanto alla carità la cura di sovvenire agli indigenti, come se alla carità corresse l’obbligo di stendere un velo sulla violazione manifesta della giustizia, sebbene tollerata non solo, ma talvolta sancita dai legislatori. Ma di tale condizione erano più che mai insofferenti gli operai oppressi dall’ingiusta sorte, e perciò ricusavano di restare più a lungo sotto quel giogo troppo pesante. Alcuni perciò, abbandonandosi all’impero di malvagi consigli, miravano ad una totale rivoluzione della società; mentre altri, trattenuti da una solida educazione cristiana a non trascorrere in così insani propositi, persistevano tuttavia nel credere che molte cose in questa materia fossero da riformare interamente e al più presto.
Né altrimenti opinavano quei molti cattolici, sacerdoti e laici, i quali mossi da un sentimento di carità certamente ammirabile, si sentivano già da lungo tempo sospinti a lenire l’immeritata indigenza dei proletari, né riuscivano in alcun modo a persuadersi come un così forte e ingiusto divario nella distribuzione dei beni temporali potesse davvero corrispondere ai disegni del Sapientissimo Creatore.
In tale lacrimevole disordine della società essi cercavano bensì con sincerità un pronto rimedio e una salda difesa contro pericoli peggiori: ma per la fiacchezza della mente umana anche nei migliori, vedendosi respinti da una parte quasi perniciosi novatori, dall’altra intralciati dagli stessi compagni di opere buone, ma seguaci di altre idee, esitando tra le varie opinioni, non sapevano dove rivolgersi.
In così grande urto e dissenso di animi, mentre dall’una parte e dall’altra si dibatteva, e non sempre pacificamente, la controversia, gli occhi di tutti, come in tante altre occasioni, si volgevano alla Cattedra di Pietro, sacro deposito di ogni verità da cui si diffondono le parole di salute in tutto il mondo; e accorrendo con insolita frequenza ai piedi del Vicario di Cristo in terra, sì gli studiosi di cose sociali, come i datori di lavoro e gli stessi operai, andavano supplicando unanimi perché fosse loro finalmente additata una via sicura.
Tutto ciò il prudentissimo Pontefice ponderò a lungo tra di sé e al cospetto di Dio, richiese di consiglio i più esperti, vagliò attentamente gli argomenti che si portavano da una parte e dall’altra, e in ultimo, ascoltando la voce della coscienza dell’Ufficio Apostolico (Enc. “Rerum novarum“, del 15 Maggio 1891) per non sembrare, tacendo, di mancare al proprio dovere (ibidem), deliberò, in virtù del divino magistero a Lui affidato, di rivolgere la parola a tutta la Chiesa, anzi a tutta l’umana società. Risuonò dunque, il 15 Maggio 1891, quella tanto desiderata voce, la quale, non atterrita dalle difficoltà dell’argomento né affievolita dalla vecchiaia, ma anzi da ridestato vigore rafforzata, ammaestrò l’umana famiglia a mettersi per nuove vie in materia di dottrina sociale.
Voi conoscete, Venerabili Fratelli e diletti Figli, anzi avete familiare la mirabile dottrina, per la quale l’Enciclica “Rerum novarum“ resterà gloriosa nei ricordi dei secoli. In essa l’ottimo Pastore, lamentando che una sì grande parte degli uomini “si trovino ingiustamente in uno stato misero e calamitoso“, con animo invitto prende a tutelare in persona la causa degli operai che “le circostanze hanno consegnati soli ed indifesi alla inumanità dei padroni e alla sfrenata cupidigia della concorrenza“ (ibidem), senza chiedere aiuto alcuno né al liberalismo, né al socialismo, dei quali l’uno s’era mostrato affatto incapace di dare soluzione legittima alla questione, l’altro proponeva un rimedio che, di gran lunga peggiore del male, avrebbe gettato in maggiori pericoli la società umana.
Il Pontefice, dunque, nel pieno esercizio del suo diritto e quale buon custode della Religione e dispensatore di quanto con essa in stretto vincolo si connette, trattandosi di un problema “del quale nessuna soluzione plausibile si potrebbe dare, senza richiamarsi alla Religione e alla Chiesa“ (ibidem),movendo unicamente dagli immutabili principi attinti dal tesoro della retta ragione e della divina Rivelazione, con tutta sicurezza e “come avente autorità“ (Matth. 7, 29), indicò e proclamò “i diritti e i doveri dai quali conviene che vicendevolmente si sentano vincolati e ricchi e proletari, e capitalisti e prestatori d’opera” (ibidem) come pure le parti rispettive della Chiesa, dei poteri pubblici e anche di coloro che più vi si trovano interessati.
Né quella voce apostolica risuonò invano; anzi, l’udirono con stupore e l’accolsero con il più grande favore non solo i figli obbedienti della Chiesa, ma anche buon numero di uomini lontani dalla verità e dall’unità della fede, e quasi tutti coloro che indi in poi s’occuparono della questione sociale ed economica, sia come studiosi privati sia come pubblici legislatori.
Ma più di tutti accolsero con giubilo quell’Enciclica gli operai cristiani, i quali si sentirono patrocinati e difesi dalla più alta Autorità della terra, e tutti quei generosi i quali già da lungo tempo solleciti di recare sollievo alla condizione degli operai, sino allora non avevano trovato quasi altro che la noncuranza degli uni, e persino gli odiosi sospetti, per non dire l’aperta ostilità di molti altri. Meritamente dunque tutti costoro d’allora in poi tennero sempre in tanto onore quell’Enciclica, che è venuto in uso di commemorarla ogni anno nei vari paesi con varie manifestazioni di gratitudine.
Tuttavia la dottrina di Leone XIII, così nobile, così profonda e così inaudita al mondo, non poteva non produrre anche in alcuni cattolici una certa impressione di sgomento, anzi di molestia e per taluno anche di scandalo. Essa infatti affrontava coraggiosamente gli idoli del liberalismo e li rovesciava, non teneva in nessun conto pregiudizi inveterati, preveniva i tempi oltre ogni aspettazione; ond’è che i troppo tenaci sostenitori dell’antico disdegnavano questa nuova filosofia sociale, e i pusillanimi paventavano di ascendere a tanta altezza; taluno anche vi fu che, pure ammirando questa luce, la reputava un ideale chimerico di perfezione più desiderabile che attuabile.
Per queste ragioni, Venerabili Fratelli e diletti Figli, mentre con tanto ardore da tutto il mondo, e specialmente dagli operai cattolici che d’ogni parte convengono in quest’alma Città, si va solennemente celebrando la commemorazione del quarantesimo anniversario dell’Enciclica “Rerum novarum“,stimiamo opportuno servirCi di questa ricorrenza, per ricordare i grandi beni che da quell’Enciclica ridondarono alla Chiesa, anzi a tutta la umana società; per rivendicare la dottrina di tanto Maestro sulla questione sociale ed economica contro alcuni dubbi sorti in tempi recenti e per svolgerla con maggior ampiezza in questo o in quel punto; e in fine, dopo una accurata disamina dell’economia moderna e del socialismo, per discoprire la radice del presente disagio sociale, e insieme additare la sola via di una salutare restaurazione, cioè la cristiana riforma dei costumi.
I.
E anzitutto, per cominciare di là donde avevamo appunto in animo di esordire, seguendo l’avvertimento di Sant’Ambrogio che diceva “non esservi nessun dovere maggiore del ringraziare“ (Sant’Ambr. De excessu fratris sui Satyri, Lib. I, 44), non possiamo trattenerCi dal rendere amplissime grazie a Dio Onnipotente per gli insigni benefizi dall’Enciclica Leoniana provenuti alla Chiesa e alla umana società. I quali benefizi se volessimo anche di volo accennare, dovremmo richiamare alla memoria quasi tutta la storia dell’ultimo quarantennio per quanto riguarda la questione sociale. Ma li possiamo tutti ridurre a tre capi principali, secondo le tre specie di aiuti che il Nostro Antecessore desiderava per il compimento della sua grande opera restauratrice.
In primo luogo lo stesso Leone XIII aveva splendidamente dichiarato che cosa si dovesse aspettare dalla Chiesa: “Di fatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre o certo a rendere assai meno aspro il conflitto; essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo di illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno; essa con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario“ (ibidem).
Ora la Chiesa non lasciò stagnare nell’inerzia queste preziose fonti, ma ad esse attinse copiosamente per il bene comune della pace desiderata. Lo stesso Leone infatti e i suoi Successori non restarono mai dal proclamare ed inculcare ripetutamente, ora a voce, ora con gli scritti, la dottrina stessa dell’Enciclica “Rerum novarum“ sulle materie sociali od economiche, e adattarla opportunamente secondo le esigenze delle circostanze e dei tempi, mostrando sempre carità di padri e costanza di pastori nella difesa massimamente dei poveri e dei deboli (basti indicarne alcuni documenti: Leone XIII, “Præclara“, del 20 Giugno 1894. – Enc. “Graves de communi“, del 18 Gennaio 1901. – Pio X, “Motu Proprio“, 8 Dicembre 1903. – Benedetto XV, Enc. “Ad Beatissimi“, del 1° Novembre 1914. – Pio XI, Enc. “Ubi arcano“, del 23 Dicembre 1922. – Enc. “Rite expiatis“, del 30 Aprile 1926).
Lo stesso fecero tanti Vescovi, spiegando la medesima dottrina con assiduità e saggezza, chiarendola con i loro commenti e applicandola alle condizioni dei paesi diversi, secondo la mente e le istruzioni della Santa Sede (La Hiérarchie Catholique et le Problème Social depuis l’Encyclique “Rerum Novarum“ 1891-1913, pp. XVI-335, 17. Fs. 11-12).
Non fa quindi meraviglia che sotto il magistero e la guida della Chiesa molti uomini dotti, ecclesiastici e laici, prendessero a trattare con ardore la scienza sociale ed economica secondo le esigenze dei nostri tempi, mossi particolarmente dall’intento di opporre con più efficacia la dottrina immutata e immutabile della Chiesa alle nuove necessità.
Così additata e rischiarata la via dell’Enciclica Leoniana, ne sorse una vera sociologia cattolica, che viene oggi giorno alacremente coltivata ed arricchita da quelle scelte persone che abbiamo chiamato ausiliarie della Chiesa. E questi non la lasciano già confinata all’ombra di eruditi convegni, ma la propalano alla pubblica luce, come ne danno splendida prova e le scuole istituite e frequentate con molta utilità nelle Università Cattoliche, nelle Accademie, nei Seminari; e i Congressi o “settimane” sociali, tenuti con una certa frequenza e fecondi di lieti frutti; l’istituzione di circoli di studi, e infine la larga e industriosa diffusione di scritti sani e opportuni.
Né va ristretto a questi limiti il bene derivato dal Documento Leoniano, perché gli insegnamenti dell’Enciclica “Rerum novarum“ a poco a poco fecero breccia anche in persone che stando fuori della cattolica unità non riconoscono il potere della Chiesa: sicché i principî cattolici della sociologia penetrarono a poco a poco nel patrimonio di tutta la società. E non raramente avviene che le eterne verità, tanto altamente proclamate dal Nostro Predecessore di felice memoria, non solamente siano riferite e sostenute in giornali e libri anche acattolici, ma altresì nelle Camere legislative e nelle aule dei tribunali.
Che più? Dopo l’immane guerra, quando i governanti delle nazioni principali, al fine di reintegrare una vera e stabile pace con un totale riassetto delle condizioni sociali, ebbero sancito fra le altre norme allora stabilite quelle che dovevano regolare secondo equità e giustizia il lavoro degli operai, tra quelle norme non ne ammisero forse molte, così concordanti coi principi e i moniti Leoniani, da sembrare di proposito dedotte da quelli? E veramente l’Enciclica “Rerum novarum“ resta un monumento memorando a cui si possono applicare, con diritto, le parole di Isaia: “Alzerò un vessillo alle nazioni” (Is. 11-12).
Frattanto, mentre le prescrizioni Leoniane, previe le investigazioni scientifiche, avevano larga diffusione nelle menti, si venne pure alla loro applicazione pratica. E anzitutto con un’operosa benevolenza si rivolsero tutte le cure all’elevazione di quella classe di uomini che, per i moderni progressi dell’industria immensamente cresciuta, non occupava ancora nella società umana un posto o grado convenevole e perciò giaceva quasi trascurata e disprezzata la classe operaia. Alla sua cultura, seguendo l’esempio dell’Episcopato, lavoravano quindi alacremente, con gran profitto delle anime, sacerdoti dell’uno e dell’altro clero quantunque già sopraffatti da altre cure pastorali. E questa costante fatica, intrapresa per informare a spirito cristiano gli operai col propor loro con chiarezza i diritti e doveri della propria classe, giovò pure in gran maniera a renderli più consapevoli della loro vera dignità, atti a progredire per vie legittime e feconde nel campo sociale ed economico, e a divenir altresì guide agli altri.
Quindi un più sicuro rifornimento di più copiosi mezzi di vita; giacché non solo si moltiplicarono mirabilmente le opere di beneficenza e di carità secondo le esortazioni del Pontefice, ma si vennero pure istituendo dappertutto associazioni nuove e sempre più numerose, nelle quali, col consiglio della Chiesa e per lo più sotto la guida di sacerdoti si danno e ricevono mutua assistenza ed sento operai, artigiani, contadini, salariati di ogni fatta.
Quanto al potere civile, Leone XIII, superando arditamente i limiti segnati dal liberalismo, insegna coraggiosamente che esso non è meramente guardiano dell’ordine e del diritto, ma deve adoperarsi in modo che “con tutto il complesso delle leggi e delle politiche istituzioni… ordinando e amministrando lo Stato, ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità“ (ibidem). È bensì vero che si deve lasciare la loro giusta libertà di azione alle famiglie ed agli individui, ma questo senza danno del pubblico bene e senza offesa di persona. Spetta poi ai reggitori dello Stato difendere la comunità e le parti di essa, ma nella protezione dei diritti stessi dei privati si deve tener conto principalmente dei deboli e dei poveri. Perché, come dice il Nostro Antecessore, “il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa: le misere plebi invece, che mancano di sostegno proprio, hanno somma necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. E però agli operai che sono nel numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua“ (ibidem).
Non neghiamo che alcuni reggitori di popoli, anche prima dell’Enciclica di Leone XIII, provvidero ad alcune necessità più urgenti degli operai e repressero le ingiustizie più atroci loro fatte. Ma è certo che allora finalmente, quando risuonò dalla Cattedra di Pietro la parola pontificia per tutto il mondo, i reggitori dei popoli, fatti più consci del proprio dovere, rivolsero i pensieri e l’attenzione loro a promuovere una più ricca politica sociale.
In verità l’Enciclica “Rerum novarum“, mentre vacillavano le massime del liberalismo, che da gran tempo intralciavano l’opera efficace dei governanti, mosse i popoli stessi a promuovere con maggiore sincerità e maggiore impegno la politica sociale, e indusse i migliori tra i cattolici a prestare in questo il loro utile concorso ai reggitori dello Stato: sicché spesso si dimostrarono nelle Camere legislative sostenitori illustri di questa nuova politica; anzi le stesse leggi sociali moderne furono non di rado proposte ai voti dei rappresentanti della Nazione e la loro esecuzione fu richiesta e caldeggiata da Ministri della Chiesa, imbevuti degli insegnamenti Leoniani.
Da tale continua e indefessa fatica sorse un nuovo ramo della disciplina giuridica affatto ignorata nei tempi passati, la quale difende con forza i sacri diritti dei lavoratori che loro provengono dalla dignità di uomini e di cristiani; giacché queste leggi si propongono la protezione degli interessi dei lavoratori, massime delle donne e dei fanciulli: l’anima, la santità, le forze, la famiglia, la casa, le officine, la paga, gli infortuni sul lavoro; in una parola tutto ciò che tocca la vita e la famiglia dei lavoratori. Se tali statuti non si accordano dappertutto e in ogni cosa con le norme di Leone XIII, non si può tuttavia negare che in molti punti vi si sente un’eco dell’Enciclica “Rerum novarum“, alla quale pertanto è, in parte assai notevole, da attribuirsi la migliorata condizione dei lavoratori.
Insegnava per ultimo il sapientissimo Pontefice come i padroni e gli operai medesimi possono recarvi un gran contributo “con istituzioni cioè ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare ed unire le due classi tra loro” (ibidem). Ma il primo luogo fra tali istituzioni Egli voleva attribuito alle corporazioni che abbracciano o i soli operai o gli operai ed i padroni insieme. E nell’illustrarla e raccomandarle insiste a lungo, dichiarandone con mirabile sapienza la natura, la causa, l’opportunità, i diritti, i doveri, le leggi.
Quegli insegnamenti furono pubblicati in un tempo veramente opportuno, quando in parecchie nazioni i pubblici poteri, totalmente asserviti al liberalismo, poco favorivano, anzi avversavano apertamente le menzionate associazioni di operai; e mentre riconoscevano consimili associazioni di altre classi e le proteggevano, con ingiustizia esosa negavano il diritto naturale di associarsi proprio a coloro che più ne avevano bisogno per difendersi dallo sfruttamento dei potenti. Né mancava tra gli stessi cattolici chi mettesse in sospetto i tentativi di formare siffatte organizzazioni, quasi sapessero di un certo spirito socialistico o sovversivo.
Sono dunque sommamente commendevoli le norme date autorevolmente da Leone XIII, perché valsero a infrangere le opposizioni e dissipare i sospetti. E d’importanza anche maggiore riuscirono per aver esse esortato i lavoratori cristiani a stringere fra loro simili organizzazioni, secondo la varietà dei mestieri, insegnandone loro il modo; e molti di essi validamente rassodarono nella via del dovere, mentre erano fortemente adescati dalle associazioni dei socialisti, le quali, con incredibile impudenza, si spacciavano per uniche tutrici e vindici degli umili e degli oppressi.
Ma assai opportunamente l’Enciclica “Rerum novarum“ dichiarava che, nel fondare tali associazioni, “queste si dovevano ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più acconci e spediti al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale“; ed è evidente che bisogna avere di mira “come scopo precipuo, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento vuolsi indirizzare tutta la disciplina sociale” (ibidem). Poiché “posto il fondamento nella Religione è aperta la strada a regolare le mutue attinenze dei soci per la tranquillità della loro convivenza e per il loro benessere economico“ (ibidem).
Ad istituire simili sodalizi si consacrarono dappertutto con lodevole ardore sacerdoti e laici in gran numero, bramosi di attuare davvero integralmente il disegno di Leone XIII. E così queste associazioni formarono lavoratori schiettamente cristiani, i quali sapevano ben congiungere insieme la diligenza pratica del loro mestiere con i salutari precetti della Religione, e difendere con efficacia e fermezza i propri interessi e diritti temporali, ma tenendo il debito ossequio alla giustizia e il sincero intento di cooperare con le altre classi della società al rinnovamento cristiano di tutta la vita sociale.
Questi consigli poi e questi moniti di Leone XIII furono messi in atto dove in un modo dove in un altro, secondo le varie circostanze dei vari luoghi. Così in alcuni paesi una stessa associazione si propose di raggiungere tutti insieme gli scopi assegnati dal Pontefice; in altri, così richiedendo o consigliando le condizioni locali, si venne ad una certa divisione di lavoro e furono istituite distinte associazioni, di cui le une si assumessero la difesa dei diritti e dei legittimi vantaggi dei soci nei contratti di lavoro, altre si occupassero del vicendevole aiuto da prestarsi nelle cose economiche, altre finalmente si dedicassero tutte alla cura dei doveri morali e religiosi e di altri obblighi consimili.
Questo secondo metodo fu adoperato principalmente là dove i cattolici non potevano formare sindacati cattolici perché impediti dalle leggi del paese o da altre cotali istituzioni economiche, o da quel lacrimevole dissidio delle intelligenze e dei cuori, tanto largamente disseminato nella società moderna, e dalla stringente necessità di resistere con fronte unico alle irrompenti schiere dei partiti sovversivi. In tali circostanze pare che i cattolici siano quasi costretti ad ascriversi a sindacati neutri, i quali tuttavia professino sempre la giustizia e la equità e lascino ai loro soci cattolici la piena libertà di provvedere alla propria coscienza e obbedire alle leggi della Chiesa. Spetta però ai Vescovi, dove secondo le circostanze credano necessarie tali associazioni e le sappiano non pericolose per la Religione, l’acconsentire a che gli operai cattolici vi aderiscano, avendo sempre l’occhio ai principi e alle garanzie, che il Nostro Predecessore Pio X, di santa memoria, raccomandava (Pio X, Enc. “Singulari quadam“, del 24 Settembre 1912); delle quali garanzie la prima e principale è questa, che insieme con quei sindacati, sempre vi siano altri sodalizi, i quali si adoperino con diligenza a educare profondamente i loro soci nella parte religiosa e morale, affinché questi possano di poi compenetrare le associazioni sindacali di quel buon spirito, con cui si devono reggere in tutta la loro condotta: e così avverrà che tali sodalizi rechino ottimi frutti, anche oltre la cerchia dei loro soci.
All’Enciclica Leoniana dunque si deve attribuire se queste associazioni di lavoratori fiorirono dappertutto in tal modo che ormai, sebbene purtroppo ancor inferiori di numero alle corporazioni dei socialisti e dei comunisti, raccolgono una grandissima moltitudine di operai e possono vigorosamente rivendicare i diritti e le legittime aspirazioni dei lavoratori cristiani, tanto nell’interno della propria nazione, quanto in convegni più estesi, e con ciò promuovere i salutari principi cristiani intorno alla società.
Le verità saggiamente discusse e validamente propugnate da Leone XIII circa il diritto naturale di associazione, inoltre, si cominciarono ad applicare con facilità anche ad altre associazioni e non solo a quelle degli operai: onde alla stessa Enciclica Leoniana si deve in non poca parte il tanto rifiorire di simili utilissime associazioni, anche tra agricoltori e altre classi medie, come pure altre istituzioni consimili nelle quali felicemente si accoppia col vantaggio economico la cultura delle anime.
Non si può dire lo stesso delle Associazioni, vivamente desiderate dal Nostro Antecessore, tra gli imprenditori di lavoro e gli industriali Se di queste dobbiamo lamentare la scarsezza, ciò non si deve attribuire unicamente alla volontà delle persone, ma alle difficoltà molto più gravi che si oppongono a consimili associazioni e che Noi conosciamo benissimo e teniamo nel giusto conto. Ci arride tuttavia la ferma speranza che anche questi impedimenti si possano tra breve rimuovere, e fin d’ora con intima consolazione del cuore Nostro salutiamo alcuni non inutili tentativi fatti in questa parte, i cui frutti copiosi ripromettono una più ricca messe in avvenire (S. Congr. del Concilio al Vescovo di Lilla, 5 Giugno 1929).
Tutti questi benefizi dell’Enciclica Leoniana, Venerabili Fratelli e diletti Figli, da Noi accennati piuttosto che ricordati, sorvolando piuttosto che dichiarandoli, sono tanti e così grandi che dimostrano chiaramente come quell’immortale documento sia ben lungi dal rappresentarci un ideale di società umana bellissimo sì ma fantastico e troppo lontano dalle vere esigenze economiche dei nostri tempi e per ciò stesso inattuabile. Per contrario, essi dimostrano che il Nostro Antecessore attinse dal Vangelo, e perciò da una sorgente sempre viva e vitale, quelle dottrine che possono, se non subito comporre, almeno mitigare in grande misura quella esiziale lotta intestina che dilania la famiglia umana. Che poi una parte di quel buon seme, tanto copiosamente sparso or sono quaranta anni, sia caduta in terra buona, vediamo dalle messi lietissime che la Chiesa di Cristo, e quindi l’intero genere umano, con la grazia di Dio, ne ha raccolto a sua salvezza. E bene a ragione si può dire che l’Enciclica Leoniana nella lunga esperienza si è dimostrata come la Magna Charta sulla quale deve posare tutta l’attività cristiana del campo sociale come sul proprio fondamento. Coloro poi che mostrano di fare poco conto di quell’Enciclica e della sua commemorazione, bisogna ben dire che bestemmiano quel che non sanno, o non capiscono quello di cui hanno solo una superficiale cognizione, o se lo capiscono meritano d’essere solennemente tacciati d’ingiustizia e di ingratitudine.
Se non che, nello stesso decorso di anni, essendo sorti alcuni dubbi circa la retta interpretazione di parecchi punti dell’Enciclica Leoniana o circa le conseguenze da trarsene, dubbi che hanno dato adito a controversie non sempre serene fra gli stessi cattolici; e d’altra parte le nuove necessità dei nostri tempi e la mutata condizione delle cose richiedendo una più accurata applicazione della dottrina Leoniana o anche qualche aggiunta, cogliamo ben volentieri questa opportuna occasione per soddisfare quanto è da Noi ai dubbi esigenze dei tempi moderni, secondo l’apostolico Nostro mandato per cui siamo a tutti debitori (Rom. I, 14).
II.
Ma prima di por mano a dare queste spiegazioni, occorre premettere il principio, già da Leone XIII con tanta chiarezza stabilito: che cioè “risiede in Noi il diritto e il dovere di giudicare con suprema autorità intorno a siffatte questioni sociali ed economiche“ (ibidem). Certo alla Chiesa non fu affidato l’ufficio di guidare gli uomini a una felicità solamente temporale e caduca, ma all’eterna. Anzi “non vuole né deve la Chiesa senza giusta causa ingerirsi nella direzione delle cose puramente umane“ (Enc. “Ubi arcano“, del 23 Dicembre 1922). In nessun modo però può rinunciare all’ufficio da Dio assegnatole, d’intervenire con la sua autorità, non nelle cose tecniche, per le quali non ha né i mezzi adatti né la missione di trattare, ma in tutto ciò che ha attinenza con la morale. Infatti in questa materia il deposito della verità a Noi commesso da Dio e il dovere gravissimo impostosi di divulgare e d’interpretare tutta la legge morale ed anche di esigerne opportunamente l’osservanza, sottopongono ed assoggettano al supremo Nostro giudizio tanto l’ordine sociale, quanto l’economico.
Giacché, sebbene l’economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggino su principi propri, sarebbe errore affermare che l’ordine economico e l’ordine morale siano così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in niun modo dipenda dal secondo. Certo, le leggi che si dicono economiche, tratte dalla natura stessa delle cose e dall’indole dell’anima e del corpo umano, stabiliscono quali limiti nel campo economico il potere dell’uomo non possa e quali possa raggiungere, e con quali mezzi: e la stessa ragione, dalla natura delle cose e da quella individuale e sociale dell’uomo, chiaramente deduce quale sia il fine da Dio Creatore proposto a tutto l’ordine economico.
Ma soltanto la legge morale, come ci intima di cercare nel complesso delle nostre azioni il fine supremo ed ultimo, così nei particolari generi di operosità ci dice di cercare quei fini speciali, che a quest’ordine di operazioni sono stati prefissi dalla natura, o meglio da Dio autore della natura, e di subordinare armonicamente questi fini particolari al fine supremo. Ed ove a tal legge da noi fedelmente si obbedisca, avverrà che tutti i fini particolari, tanto individuali quanto sociali, in materia economica perseguiti, si inseriranno convenientemente nell’ordine universale dei fini, e salendo per quelli come per altrettanti gradini, raggiungeremo il fine ultimo di tutte le cose, che è Dio, bene supremo e inesauribile per se stesso e per noi.
Ed ora, per venire ai singoli punti, cominciamo dal dominio o diritto di proprietà. Voi conoscete, Venerabili Fratelli e diletti Figli, come il Nostro Predecessore, di felice memoria, abbia difeso gagliardamente il diritto di proprietà contro gli errori dei socialisti del suo tempo, dimostrando che l’abolizione della proprietà privata tornerebbe, non a vantaggio, ma ad estrema rovina della classe operaia. E poiché certuni, con la più ingiuriosa delle calunnie, accusano il Sommo Pontefice e la Chiesa stessa, quasi abbia preso o prenda ancora le parti dei ricchi contro i proletari, e poiché tra i Cattolici stessi si riscontrano dissensi intorno alla vera e schietta sentenza Leoniana, Ci sembra bene ribattere ogni calunnia contro quella dottrina, che è la cattolica, su questo argomento, e difenderla da false interpretazioni.
In primo luogo si ha da ritenere per certo che né Leone XIII, né i teologi che insegnarono sotto la guida ed il vigile magistero della Chiesa, negarono mai o misero in dubbio la doppia specie di proprietà, detta individuale o sociale, secondo che riguarda gli individui o spetta al bene comune: ma hanno sempre unanimemente affermato che il diritto del dominio privato viene largito agli uomini dalla natura, cioè dal Creatore stesso, sia perché gli individui possano provvedere a sé e alla famiglia, sia perché grazie a tale istituto i beni del Creatore, essendo destinati a tutta l’umana famiglia, servano veramente a questo fine: il che in nessun modo si potrebbe ottenere senza l’osservanza di un ordine certo e determinato.
Pertanto occorre guardarsi diligentemente dall’urtare contro un doppio scoglio. Come negando o affievolendo il carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade nel cosiddetto “individualismo” o lo si rasenta, così respingendo o attenuando il carattere privato e individuale del medesimo diritto, necessariamente si precipita nel “collettivismo” o almeno si sconfina verso le sue teorie. E chi non tenga presenti queste considerazioni va logicamente a rompere negli scogli del modernismo morale giuridico e sociale, da Noi denunciati nella Nostra prima Enciclica (Enc. “Ubi arcano“, del 23 Dicembre 1922). E di ciò si persuadano coloro specialmente che, amanti delle novità, non si peritano d’incolpare la Chiesa con vituperose calunnie, quasi abbia permesso che nella dottrina dei teologi s’infiltrasse il concetto pagano della proprietà, al quale bisognerebbe assolutamente sostituire un altro, che con strana ignoranza essi chiamano cristiano.
Per contenere poi nei giusti limiti le controversie sorte ultimamente intorno alla proprietà e ai doveri ad essa inerenti, rimanga fermo anzi tutto il fondamento stabilito da Leone XIII: che il diritto cioè di proprietà si distingue dall’uso di esso (Enc. “Rerum novarum“). La giustizia, infatti, che si dice commutativa, vuole che sia scrupolosamente mantenuta la divisione dei beni, e che non s’invada il diritto altrui col trapassare i limiti del dominio proprio; che poi i padroni non usino se non onestamente della proprietà, ciò non è ufficio di questa speciale giustizia, ma di altre virtù dei cui doveri non si può esigere l’adempimento per vie giuridiche (ibidem). Onde a torto certuni pretendono che la proprietà e l’onesto uso di essa siano ristretti dentro gli stessi confini, e molto più è contrario a verità il dire che il diritto di proprietà venga meno o si perda per l’abuso o il non uso che se ne faccia.
Compiono quindi opera salutare e degna di ogni encomio tutti coloro che, salva la concordia degli animi e l’integrità della dottrina, quale fu sempre predicata dalla Chiesa, si studino di definire l’intima natura e i limiti di questi doveri, con i quali il diritto stesso di proprietà ovvero l’uso o esercizio del dominio vengono circoscritti dalle necessità della convivenza sociale. S’ingannano invece ed errano coloro che s’argomentano di diminuire talmente il carattere individuale della proprietà, da giungere di fatto a distruggerla.
E veramente dal carattere stesso della proprietà, che abbiamo detta individuale insieme e sociale, si deduce che in questa materia gli uomini debbono aver riguardo non solo al proprio vantaggio, ma altresì al bene comune. La determinazione poi di questi doveri in particolare e secondo le circostanze, e quando non sono già indicati dalla legge di natura, è ufficio dei pubblici poteri. Onde la pubblica autorità può con maggior cura specificare, considerata la vera necessità del bene comune e tenendo sempre dinanzi agli occhi la legge naturale e divina, che cosa sia lecito ai possidenti e che cosa no, nell’uso dei propri beni. Anzi Leone XIII aveva sapientemente sentenziato “avere Dio lasciato all’industria degli uomini e alle istituzioni dei popoli la delimitazione delle proprietà private (ibidem). E invero, come dalla storia si provi che, al pari degli altri elementi della vita sociale, la proprietà non è affatto immobile, Noi stessi già lo dichiarammo con le seguenti parole: “Quante diverse forme concrete ha avuto la proprietà dalla primitiva forma dei popoli selvaggi, della quale ancora ai dì nostri si può avere una certa esperienza, a quella proprietà nei tempi e nelle forme patriarcali, e poi via via nelle diverse forme tiranniche (diciamo nel significato classico della parola), poi attraverso le forme feudali, poi in quelle monarchiche e in tutte le forme susseguenti dell’età moderna!“ (Allocuzione al Comitato dell’Azione Cattolica per l’Italia, del 16 Maggio 1926). La pubblica autorità, però, come è evidente, non può usare arbitrariamente di tale suo diritto, poiché bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni: diritto che lo Stato non può sopprimere, perché “l’uomo è anteriore allo Stato“ (Enc. “Rerum novarum“) ed anche perché “il domestico consorzio è logicamente e storicamente anteriore al civile“ (ibidem). Perciò il sapientissimo Pontefice aveva già dichiarato non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata da renderla quasi stremata. “Poiché non derivando il diritto di proprietà privata da legge umana, ma dalla naturale, lo Stato non pilò annientarlo, ma semplicemente temperarne l’uso ed armonizzarlo con il bene comune“ (ibidem). Quando poi la pubblica autorità mette così d’accordo i privati domini con le necessità del bene comune, non fa opera ostile ma piuttosto amichevole verso i padroni privati, come quella che in tal modo validamente impedisce che il privato possesso dei beni, voluto dal sapientissimo Autore della natura a sussidio della vita umana, generi danni intollerabili e così vada in rovina; né abolisce i privati possessi, ma li assicura, né indebolisce la proprietà privata, ma la invigorisce.
Non sono neppure abbandonate per intero al capriccio dell’uomo le sue libere entrate, quelle cioè di cui egli non abbisogna per un tenore di vita conveniente e decoroso, che anzi la Sacra Scrittura e i Santi Padri chiarissimamente e continuamente denunciano ai ricchi il gravissimo precetto onde sono tenuti di esercitare l’elemosina, la beneficenza, la liberalità.
Quanto all’impiegare più copiosi proventi in opere che diano più larga opportunità di lavoro, purché tale lavoro sia atto a procurare beni veramente utili, dai principi dell’Angelico Dottore (S. Thom., Summa Theol., II-II, Q. CXXXIV) si può dedurre che non solo ciò è immune da ogni vizio o morale imperfezione, ma deve ritenersi opera cospicua della virtù della magnificenza e in tutto corrispondere alle necessità dei tempi.
Che la proprietà poi originariamente si acquisti o con l’occupazione di una cosa senza padrone (res nullius) o con l’industria e il lavoro, ossia con la specificazione come si suoi dire, è chiaramente attestato sia dalla tradizione di tutti i tempi, sia dall’insegnamento del Pontefice Leone XIII Nostro Predecessore. Non si reca infatti torto a nessuno, checché alcuni dicano in contrario, quando si prende possesso di una cosa che è in balìa del pubblico, ossia non è di nessuno; l’industria poi che da un uomo si eserciti in proprio nome e con la quale si aggiunga una nuova forma o un aumento di valore, basta da sola perché questi frutti si aggiungano a chi vi ha lavorato attorno.
Assai diversa è la natura del lavoro che si presta ad altri e si esercita sopra il capitale altrui. A questo lavoro tutto si addice quel che Leone XIII affermò essere cosa verissima: cioè che “non d’altronde è prodotta la pubblica ricchezza, se non dal lavoro degli operai“ (Enc. “Rerum novarum“). Non vediamo infatti con gli occhi nostri, come l’ingente somma dei beni di cui è fatta la ricchezza degli uomini, esce prodotta dalle mani degli operai, le quali o lavorano da sole, o mirabilmente moltiplicano la loro efficienza valendosi di strumenti ossia di macchine? Non v’è anzi chi ignori come nessun popolo mai dalla penuria e dall’indigenza sia arrivato ad una migliore o più alta fortuna, se non mediante un grande lavoro compiuto insieme da tutti gli abitanti del paese, tanto da coloro che dirigono, quanto da coloro che eseguono. Ma non meno chiaro appare che quei sommi sforzi sarebbero riusciti del tutto inutili, anzi non sarebbe stato neppure possibile il tentarli, se Dio creatore di tutti non avesse prima largito, per sua bontà, le ricchezze e il capitale naturale, i sussidi e le forze della natura. Che cosa è infatti lavorare, se non adoperare ed esercitare le forze dell’animo e del corpo circa queste cose e con queste cose medesime? Richiede poi la legge di natura, e la volontà di Dio mediante essa legge promulgata, che si osservi il retto ordine nell’applicare agli usi umani il capitale naturale: e siffatto ordine consiste in ciò che ogni cosa abbia il suo padrone.
Pertanto, tolto il caso che altri lavori intorno al proprio capitale, tanto l’opera altrui quanto l’altrui capitale debbono associarsi in un comune consorzio, perché l’uno senza l’altro non valgono a produrre nulla. Il che fu bene osservato da Leone XIII quando scrisse: “Non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale“ (ibidem). Per il che è al tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro, ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro.
Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a se stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne cavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e riprodurle. Si andava dicendo che per una legge economica affatto ineluttabile tutta la somma del capitale apparteneva ai ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè ad un tenore di vita precario e meschino. È bensì vero che con questi principi dei liberali, che volgarmente si denominano di Manchester, l’azione pratica non s’accordava né sempre né dappertutto; pure non si può negare che gli istituti economico-sociali avevano mostrato di piegare verso quei principi con vero e costante sforzo. Ora che queste false opinioni, questi fallaci supposti siano stati fortemente combattuti, e non da coloro solo che per essi venivano privati del naturale diritto di procurarsi una migliore condizione di vita, nessuno vi sarà che se ne meravigli.
Perciò agli operai angariati si accostarono i cosiddetti intellettuali, contrapponendo ad una legge immaginaria un principio morale parimenti immaginario; che cioè quanto si produce e si percepisce di reddito, trattone quel tanto che basti a risarcire e riprodurre il capitale, si deve di diritto all’operaio. Questo errore, quanto è più lusinghevole di quello di vari socialisti, i quali affermano che tutto ciò che serve alla produzione si ha da trasfondere allo Stato o come dicono, da “socializzare”, tanto è più pericoloso e più atto ad ingannare gli incauti: blando veleno, che fu avidamente sorbito da molti, cui un aperto socialismo non aveva mai potuto trarre in inganno.
Certo ad impedire che con queste false teorie non si chiudesse l’adito alla giustizia ed alla pace tanto per il capitale quanto per il lavoro, avrebbero dovuto giovare le sapienti parole del Nostro Predecessore, che cioè “la terra, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio ed utilità di tutti“ (ibidem). E ciò stesso Noi pure abbiamo insegnato poc’anzi nel riaffermare che la spartizione dei beni in private proprietà è stabilita dalla natura stessa, affinché le cose create possano dare agli uomini tale comune utilità stabilmente e con ordine. Il che conviene tenere di continuo presente, se non si vuole uscire dal retto sentiero della verità.
Ora, non ogni distribuzione di beni e di ricchezze tra gli uomini è tale da ottenere il fine inteso da Dio o pienamente o con quella perfezione che si deve. Onde è necessario che le ricchezze, le quali si amplificano di continuo grazie ai progressi economici e sociali, vengano attribuite ai singoli individui ed alle classi in modo che resti salva quella comune utilità di tutti, lodata da Leone XIII, ovvero, per dirla con altre parole, perché si serbi integro il bene comune dell’intera società. Per questa legge di giustizia sociale, non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione degli utili. Se per ciò questa legge è violata dalla classe dei ricchi, quando spensierati nell’abbondanza dei loro beni stimano naturale quell’ordine di cose che riesce tutto a loro favore e niente a favore dell’operaio; è non meno violata dalla classe proletaria, quando aizzata per la violazione della giustizia e tutta intesa a rivendicare il solo suo diritto, di cui è conscia, esige tutto per sé, siccome prodotto dalle sue mani, e quindi combatte e vuole abolita la proprietà e i redditi o proventi non procacciati con il lavoro, di qualunque genere siano o di qualsiasi ufficio facciano le veci nell’umana convivenza, e ciò non per altra ragione se non perché sono tali. A questo proposito occorre osservare che fuori di argomento e bene a torto applicano alcuni le parole dell’Apostolo: “Chi non vuole lavorare non mangi“ (II Thess. III, 10); perché la sentenza dell’Apostolo è proferita contro quelli che si astengono dal lavoro, quando potrebbero e dovrebbero lavorare e ammonisce a usare alacremente del tempo e delle forze del corpo e dell’anima, né aggravare gli altri, quando da noi stessi ci possiamo provvedere; ma non insegna punto che il lavoro sia l’unico titolo per ricevere vitto e proventi (II Thess. III, S-10).
A ciascuno dunque si deve attribuire la sua parte di beni e bisogna procurare che la distribuzione dei beni creati, la quale ognuno vede quanto ora sia causa di disagio, per il grande squilibrio fra i pochi straricchi e gli innumerevoli indigenti, venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e della giustizia sociale.
Tale è l’intento che il Nostro Predecessore proclamò doversi raggiungere: la elevazione del proletariato. E ciò si deve asserire tanto più forte e ripetere tanto più istantemente, in quanto non di rado le prescrizioni così salutari del Pontefice furono messe in dimenticanza, o perché di proposito passate sotto silenzio, o perché l’eseguirle si reputò non possibile, mentre pure si possono e si debbono eseguire. Né sono esse diventate ai nostri giorni meno sagge ed efficaci, perché meno imperversa oggi quell’orrendo “pauperismo” da Leone XIII considerato. Certo, la condizione degli operai s’è fatta migliore e più equa, massime negli Stati più colti e nelle Nazioni più grandi, dove non si può dire che tutti gli operai siano afflitti dalla miseria o travagliati dal bisogno. Ma dopo che le arti meccaniche e le industrie dell’uomo sono penetrate e si sono diffuse con tanta rapidità in regioni senza numero, tanto nelle terre che si dicono nuove, quanto nei regni del lontano Oriente, già famosi per antichissima civiltà, è cresciuta smisuratamente la moltitudine dei proletari bisognosi, e i loro gemiti gridano a Dio dalla terra. S’aggiunga il grandissimo esercito di braccianti della campagna, ridotti ad una infima condizione di vita, privi di ogni speranza d’ottenere mai “alcuna porzione di suolo“ (Enc. “Rerum novarum“) e quindi sottoposti in perpetuo alla condizione proletaria se non si adoperino rimedi convenevoli ed efficaci.
Ma benché sia verissimo che la condizione proletaria deve ben distinguersi dal pauperismo, pure la stessa fortissima moltitudine dei proletari è un argomento ineluttabile, che le ricchezze tanto copiosamente cresciute in questo nostro secolo detto dell’industrialismo non sono rettamente distribuite e applicate alle diverse classi d’uomini.
È necessario dunque con tutte le forze procurare che in avvenire i capitali guadagnati non si accumulino se non con equa proporzione presso i ricchi, e si distribuiscano con una certa ampiezza fra i prestatori di opera, non perché questi si rallentino nel lavoro essendo l’uomo nato al lavoro, come l’uccello al volo, ma perché con l’economia aumentino il loro avere e amministrando con saggezza l’aumentata proprietà possano più facilmente e tranquillamente sostenere i pesi della famiglia e, usciti da quell’incerta sorte di vita in cui si dibatte il proletariato, non solo siano in grado di sopportare le vicende della vita, ma possano ripromettersi che alla loro morte saranno convenientemente provveduti quelli che lasciano dopo di sé.
Tutti questi suggerimenti furono dal Nostro Predecessore, non soltanto insinuati, ma apertamente proclamati; e Noi con questa Nostra Enciclica torniamo a vivamente inculcarli. Se ora non si prende finalmente a metterli in esecuzione senza indugio e con ogni vigore, nessuno potrà ripromettersi possibile un’efficace difesa dell’ordine pubblico e della tranquillità sociale contro i seminatori di novità sovversive.
Ma tale attuazione non sarà possibile se i proletari non giungeranno, con la diligenza e con il risparmio, a farsi un qualche modesto patrimonio, come abbiamo detto, riferendosi alla dottrina del Nostro Predecessore Leone XIII. Orbene chi per guadagnarsi il vitto e il necessario alla vita altro non ha che il lavoro, come potrà, pur vivendo parcamente, mettersi da parte qualche fortuna, se non con la paga che trae dal lavoro? Affrontiamo dunque la questione del salario da Leone XIII definita “assai importante“(ibidem), svolgendone e dichiarandone, ove occorra, la dottrina e i precetti.
Dapprima, l’affermazione che il contratto di offerta di prestazione d’opera sia di sua natura ingiusto, e quindi si debba sostituire con un contratto di società, è affermazione gratuita e calunniosa contro il Nostro Predecessore, la cui Enciclica “Rerum novarum“ non solo lo ammette, ma tratta a lungo sul modo di disciplinarlo secondo le norme della giustizia.
Tuttavia, nelle odierne condizioni sociali, stimiamo sia cosa più prudente che, quando è possibile, il contratto del lavoro venga temperato alquanto con il contratto di società, come già si è cominciato a fare in diverse maniere, con non poco vantaggio degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nella amministrazione, e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti.
Né la giusta proporzione del salario deve calcolarsi da un solo titolo, ma da più, come già sapientemente aveva dichiarato Leone XIII scrivendo: “Il determinare la mercede secondo la giustizia dipende da molte considerazioni“ (ibidem). Con le quali parole fin da allora confutò la leggerezza di coloro i quali credono che una questione tanto grave si possa sciogliere facilmente, ricorrendo a un’unica misura, ben lontana dalla realtà.
Sono certamente in errore coloro i quali non dubitano di proclamare come principio, che tanto vale il lavoro e altrettanto deve essere rimunerato quanto valgono i frutti da esso prodotti, e che perciò il prestatore del lavoro ha il diritto di esigere quanto si è ottenuto col suo lavoro: principio la cui assurdità appare anche da quanto abbiamo esposto, trattando della proprietà.
Ora è facile intendere che, oltre al carattere personale e individuale, deve considerarsi il carattere sociale come della proprietà, così anche del lavoro, massime di quello che per contratto si cede ad altri; giacché se non sussiste un corpo veramente sociale e organico, se un ordine sociale e giuridico non tutela l’esercizio del lavoro, se le varie parti, le une dipendenti dalle altre, non si collegano fra loro e mutuamente non si compiono, se, quel che più conta, l’intelligenza, il capitale e il lavoro non si associano quasi a formare una cosa sola, l’umana attività non può produrre i suoi frutti; e quindi non si potrà valutare giustamente né retribuire adeguatamente, dove non si tenga conto della sua natura sociale e individuale.
Da questo doppio carattere insito nella natura stessa del lavoro umano, sgorgano gravissime conseguenze, a norma delle quali il salario vuol essere regolato e determinato.
In primo luogo, all’operaio si deve dare una mercede che basti al sostentamento di lui e della sua famiglia (Enc. “Casti connubii“, del 31 Dicembre 1930). È bensì giusto che anche il resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze, contribuisca al comune sostentamento, come già si vede in pratica specialmente nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi dell’età fanciullesca né della debolezza della donna. Le madri di famiglia prestino l’opera loro soprattutto in casa o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri e particolarmente la cura e l’educazione dei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare.
Bisogna dunque fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una mercede tale che basti per provvedere convenientemente alle comuni necessità domestiche. Se nelle presenti circostanze della società ciò non sempre si potrà fare, la giustizia sociale richiede che s’introducano quanto prima quelle mutazioni che assicurino ad ogni operaio adulto siffatti salari. Sono altresì meritevoli di lode tutti coloro che con saggio e utile divisamento hanno sperimentato e tentato diverse vie, onde la mercede del lavoro si retribuisca con tale corrispondenza ai pesi della famiglia, che aumentando questi, anche quella si somministri più larga; e anzi, se occorra, si soddisfaccia alle necessità straordinarie.
Nello stabilire la quantità della mercede si deve tener conto anche dello stato dell’azienda e dell’imprenditore di essa; perché è ingiusto chiedere esagerati salari, quando l’azienda non li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente calamità degli operai. È però vero che se il minor guadagno che essa fa è dovuto a indolenza, a inettezza e a noncuranza del progresso tecnico ed economico, questa non sarebbe da stimarsi giusta causa per diminuire la mercede agli operai. Se l’azienda medesima non ha tante entrate che bastino per dare un equo salario agli operai, o perché è oppressa da ingiusti gravami, o perché è costretta a vendere i suoi prodotti ad un prezzo minore del giusto, coloro che così la opprimono si fanno rei di grave colpa, perché costoro privano della giusta mercede gli operai, i quali, spinti dalla necessità, sono costretti a contentarsi di un salario inferiore al giusto.
Tutti adunque, operai e padroni, in unione di forza e di mente, si adoperino a vincere gli ostacoli e le difficoltà, e siano aiutati in quest’opera tanto salutare dalla sapiente provvidenza dei pubblici poteri. Se poi il caso fosse arrivato all’estremo, allora dovrà deliberarsi se l’azienda possa proseguire nella sua impresa, o se sia da provvedere in altro modo agli operai. Nel qual punto, che è certo gravissimo, bisogna che si stringa ed operi efficacemente una certa colleganza e concordia cristiana tra padroni e operai.
Finalmente la quantità del salario deve contemperarsi con il pubblico bene economico. Già abbiamo detto quanto giovi a questa prosperità o bene comune, che gli operai mettano da parte la porzione di salario che loro sopravanza alle spese necessarie, per giungere a poco a poco ad un modesto patrimonio; ma non è da trascurare un altro punto di importanza forse non minore e ai nostri tempi sommamente necessario: che cioè a coloro i quali e possono e vogliono lavorare, si dia opportunità di lavorare. E questo non poco dipende dalla determinazione del salario; la quale, come può giovare là dove è mantenuta in giusti limiti, così alla sua volta può nuocere se li eccede.
Chi non sa infatti che la troppa tenuità o la soverchia altezza dei salari sono state la cagione per la quale gli operai non potessero aver lavoro? Il quale inconveniente, riscontratosi specialmente nei tempi del Nostro Pontificato in danno di molti, gettò gli operai nella miseria e nelle tentazioni, mandò in rovina la prosperità della vita collettiva e mise in pericolo la pace e tranquillità di tutto il mondo. È contrario dunque alla giustizia sociale che, per badare al proprio vantaggio senza aver riguardo al bene comune, il salario degli operai venga troppo abbassato o troppo innalzato; e la medesima giustizia richiede che, nel consenso delle menti e della volontà, per quanto è possibile, il salario venga temperato in maniera che a quanti più è possibile sia dato di prestare l’opera loro e percepirne i frutti convenienti per il sostentamento della vita.
A ciò parimenti giova la giusta proporzione tra i salari; con la quale va strettamente congiunta la giusta proporzione dei prezzi a cui si vendono i prodotti delle diverse arti, quali sono stimate l’agricoltura, l’industria e simili. Con la conveniente osservanza di queste cautele, le diverse arti si comporranno e si uniranno come in un sol corpo e, come le membra, si presteranno vicendevolmente aiuto e perfezione. Allora l’economia sociale veramente sussisterà e otterrà i suoi fini, quando a tutti e singoli i soci saranno somministrati tutti i beni che si possono apprestare con le forze e i sussidi della natura, con l’arte tecnica, con la costituzione sociale del fatto economico; i quali beni debbono essere tanti quanti sono necessari sia a soddisfare ai bisogni e alle oneste comodità, sia a promuovere gli uomini a quella più felice condizione di vita, che quando la cosa si faccia prudentemente, non solo non è d’ostacolo alla virtù, ma grandemente la favorisce ( S. Thom. De regimine principum, I, 15).
Le indicazioni finora date intorno all’equa divisione dei beni e alla giustizia dei salari riguardano gli individui e solo indirettamente toccano l’ordine sociale, alla cui restaurazione sopra tutto, secondo i principi della sana filosofia e i precetti altissimi della legge evangelica che lo perfezionano, applicò ogni sua cura e attenzione il Nostro Antecessore Leone XIII.
Fu allora aperta la via; ma perché siano perfezionate molte cose che ancora restano da fare e ne ridondino più copiosi ancora e più lieti vantaggi all’umana famiglia, sono soprattutto necessarie due cose: la riforma delle istituzioni e la emendazione dei costumi.
E quando parliamo di riforma delle istituzioni, pensiamo in primo luogo allo Stato, non perché dall’opera sua si debba aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio dell’individualismo che abbiamo detto, le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. E siffatta deformazione dell’ordine sociale reca non piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più portare, onde si trova oppresso da una infinità di carichi e di affari.
È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le assemblee del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle.
Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano, perché essa sola può compierle: di direzione, cioè di vigilanza, di incitamento, di repressione a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso.
Questa poi deve essere la prima mira, questo lo sforzo e dello Stato e dei migliori cittadini: mettere fine alle competizioni delle due classi opposte, risvegliare e promuovere una cordiale cooperazione delle varie professioni dei cittadini.
La politica sociale porrà dunque ogni studio a ricostituire le professioni stesse; giacché la società umana si trova al presente in uno stato violento, quindi instabile e vacillante, per ciò appunto che si fonda su classi di diverse tendenze, fra loro opposte e propense quindi a lotte e inimicizie. E per verità, quantunque il lavoro, come spiega egregiamente il Nostro Predecessore nella sua Enciclica, non sia una vile merce, anzi vi si debba riconoscere la dignità umana dell’operaio e quindi non sia da mercanteggiare come una merce qualsiasi, tuttavia, come stanno ora le cose, nel mercato del lavoro l’offerta e la domanda divide gli uomini come in due schiere; e la disunione che ne segue, trasforma il mercato come in un campo di lotta ove le due parti si combattono accanitamente. E a questo grave disordine, che porta al precipizio l’intera società, ognuno vede quanto sia necessario portare rimedio. Ma la guarigione perfetta si potrà ottenere allora soltanto, quando tolta di mezzo una tale lotta, le membra del corpo sociale si trovino bene assestate e costituiscano le varie professioni, a cui ciascuno dei cittadini aderisca non secondo l’ufficio che ha nel mercato del lavoro, ma secondo le diverse parti sociali che i singoli esercitano. Avviene infatti per impulso di natura che, siccome quanti si trovano congiunti per vicinanza di luogo si uniscono a formare municipi, così quelli che si applicano ad un’arte medesima, formino collegi o corpi sociali; di modo che queste corporazioni, con diritto loro proprio, da molti si sogliono dire se non essenziali alla società civile, almeno naturali.
Siccome poi l’ordine, come ragiona ottimamente San Tommaso (S. Thom. Contra Gent., III, 71; Summ. Theol., I, Q. LXV, a. 2 i.c.), è l’unità che risulta dall’opportuna disposizione di molte cose, il vero e genuino ordine sociale esige che i vari membri della società siano collegati in ordine ad una sola cosa per mezzo di qualche saldo vincolo. La qual forza di coesione si trova infatti tanto nell’identità dei beni da prodursi o dei servizi da farsi, in cui converge il lavoro riunito dei datori e prestatori di lavoro della stessa categoria, quanto in quel bene comune, a cui tutte le varie classi, ciascuna per la parte sua, devono unitamente e amichevolmente concorrere. E questa concordia sarà tanto più forte e più efficace, quanto più fedelmente i singoli uomini e i vari corpi professionali si studieranno di esercitare la propria professione e di segnalarsi in essa.
Dal che facilmente si deduce che in tali corporazioni primeggiano di gran lunga le cose che sono comuni a tutta la categoria. Tra esse poi principalissima è il promuovere più che mai intensamente la cooperazione della intera corporazione dell’arte al bene comune, cioè alla salvezza e prosperità pubblica della nazione. Quanto agli affari, invece, in cui si devono specialmente procurare e tutelare i vantaggi e gli svantaggi speciali dei padroni e degli artieri, se occorrerà deliberazione, dovrà farsi dagli uni e dagli altri separatamente. Occorre appena ricordare che, con la debita proporzione, si può applicare alle corporazioni professionali quanto Leone XIII insegnò circa la forma del regime politico, che cioè resta libera la scelta di quella forma che meglio aggrada, purché si provveda alla giustizia e alle esigenze del bene comune (Enc. “Immortale Dei“, del l° Novembre 1885).
Orbene, a quel modo che gli abitanti di un municipio usano associarsi per lini svariatissimi, e a tali associazioni ognuno è libero di dare o non dare il suo nome, così quelli che attendono all’arte medesima si uniranno pure fra loro in associazioni libere per quegli scopi che in qualche modo vanno connessi con l’esercizio di quell’arte. Ma poiché su tali libere associazioni già furono date ben chiare e distinte spiegazioni nell’Enciclica del Nostro Predecessore di illustre memoria, crediamo che basti ora inculcare questo solo: che l’uomo ha libertà non solo di formare queste associazioni che sono di ordine e di diritto privato, ma anche di introdurvi quell’ordinamento e quelle leggi che si giudichino le meglio conducenti al fine (Enc. “Rerum novarum“). E la stessa libertà si ha da rivendicare per le fondazioni di associazioni che sorpassino i limiti delle singole parti. Le libere associazioni poi, che già fioriscono e portano frutti salutari, si debbono aprire la via alla formazione di quelle corporazioni più perfette, di cui abbiamo fatto menzione, e con ogni loro energia promuoverla secondo le norme della sociologia cristiana.
Un’altra cosa ancora si deve procurare, che è strettamente connessa con la precedente. A quel modo cioè che l’unità della società umana non può fondarsi nell’opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale, dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo o timone proprio secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente, che per qualsiasi intelligenza creata. Sennonché la libera concorrenza, quantunque sia cosa certamente equa e utile se contenuta in limiti ben determinati, non può essere in nessun conto il timone dell’economia: il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza, quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito individualistico. È dunque al tutto necessario che l’economia torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio direttivo. Ma tale ufficio direttivo molto meno può essere preso da quella supremazia economica, che in questi ultimi tempi è andata sostituendosi alla libera concorrenza; poiché, essendo essa una forza cieca e una energia violenta, per diventare utile agli uomini ha bisogno di essere sapientemente frenata e guidata. Si devono quindi ricercare più alti e più nobili principi da cui questa egemonia possa essere vigorosamente e totalmente governata: tali sono la giustizia e la carità sociali. Perciò è necessario che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli, anzi di tutta la vita della società; e più ancora è necessario che questa giustizia sia davvero efficace, ossia costituisca un ordine giuridico e sociale a cui l’economia tutta si conformi. La carità sociale poi deve essere come l’anima di questo ordine, alla cui tutela ed efficace rivendicazione deve attendere l’autorità pubblica: e lo potrà fare tanto più facilmente se si libererà da quei pesi che non le sono propri, come abbiamo sopra dichiarato.
Conviene anzi che le varie nazioni, unendo propositi e forze insieme, giacché nel campo economico stanno in mutua dipendenza e debbono aiutarsi a vicenda, si sforzino di promuovere con sagge convenzioni e istituzioni una felice cooperazione di economia internazionale.
Se così pertanto le membra del corpo sociale saranno rinfrancate, e così raddrizzato il loro principio direttivo, quale timone dell’economia sociale, si potrà dire di esse in qualche modo ciò che l’Apostolo dice del Corpo mistico di Gesù Cristo, che “tutto il corpo compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro, prende l’aumento proprio del corpo per sua perfezione mediante la carità” (Eph. IV, 16).
Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera Enciclica, richiede da Noi e un qualche cenno e qualche opportuna considerazione.
Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto esso solo, così riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai ed i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro. L’iscrizione al sindacato è facoltativa, e soltanto in questo senso l’organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti ad una data categoria, siano essi operai o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non esclude l’esistenza di associazioni professionali di fatto.
Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. Lo sciopero è vietato: se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato.
Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell’ordinamento, per quanto sommariamente indicato: la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l’azione moderatrice di una speciale magistratura.
Per nulla negligere in argomento di tanta importanza ed in armonia con i principi qui sopra richiamati, e con quello che subito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all’avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale.
Noi crediamo che a raggiungere quest’altro nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessaria innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la collaborazione di tutte le buone volontà. Crediamo ancora e per necessaria conseguenza che l’intento stesso sarà tanto più sicuramente raggiunto, quanto più largo sarà il contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro pratica, da parte, non dell’Azione Cattolica (che non intende svolgere attività strettamente sindacali o politiche), ma da parte di quei figli Nostri che l’Azione Cattolica squisitamente forma a quei principi ed al loro apostolato sotto la guida e il Magistero della Chiesa; della Chiesa, la quale anche sul terreno più sopra accennato, come ovunque si agitano e regolano questioni morali, non può dimenticare e negligere il mandato di custodia e di magistero divinamente conferitole.
Sennonché, quanto abbiamo detto circa la restaurazione e il perfezionamento dell’ordine sociale non potrà essere attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi, come la storia stessa ce ne dà splendida testimonianza. Vi fu tempo infatti in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell’ordinamento è già da gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e in qualche modo venirsi dilatando, ma piuttosto perché gli uomini induriti dall’egoismo ricusarono d’allargare, come avrebbero dovuto secondo il crescente numero della moltitudine, i quadri di quell’ordinamento, o perché traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi autorità si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione.
Resta dunque che, dopo aver nuovamente chiamato in giudizio l’odierno regime economico e il suo acerrimo accusatore, il socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull’uno e sull’altro, indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne indichiamo il primo e più necessario rimedio, cioè la riforma dei costumi.
III.
E veramente, profonde sono le mutazioni che dai tempi di Leone XIII in qua hanno subito tanto il regime economico quanto il socialismo.
Anzitutto, che le condizioni economiche siano profondamente trasformate è una cosa a tutti evidente. E voi sapete, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che il Nostro Predecessore di felice memoria nella sua Enciclica contemplava soprattutto quell’ordinamento economico in cui generalmente si contribuisce all’attività economica dagli uni con il capitale, dagli altri con il lavoro, secondo che egli definiva con felice espressione: “Non può esservi capitale senza lavoro né lavoro senza capitale“ (ibidem).
Orbene, Leone XIII si sforzò a tutto potere di disciplinare questo ordinamento economico, secondo le norme della rettitudine; sicché è evidente che esso non è in sé da condannarsi. E infatti non è di sua natura vizioso: allora però viola il retto ordine, quando il capitale vincola a sé gli operai, ossia la classe proletaria, con il fine e con la condizione di sfruttare a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l’economia tutta, senza far caso né della dignità umana degli operai, né del carattere sociale dell’economia, né della stessa giustizia sociale e del bene comune.
Vero è che neppure oggi è questo il solo ordinamento economico vigente in ogni luogo; un’altra forma vi è che novera ancora grande moltitudine di persone, importante per numero e potere, quale ad esempio, la classe degli agricoltori, in cui la maggior parte del genere umano si procura col probo e onesto lavoro quanto è necessario alla vita. Anch’essa ha le sue angustie e le sue difficoltà, alle quali allude il Nostro Predecessore in parecchi tratti della sua Enciclica e Noi pure in questa vi abbiamo più di una volta accennato.
Ma l’ordinamento capitalistico dell’economia, con il dilatarsi dell’industrialismo per tutto il mondo, dopo l’Enciclica di Leone XIII, si è venuto esso pure allargando per ogni dove a segno tale da invadere e penetrare anche nelle condizioni economiche e sociali di quelli che si trovano fuori della sua cerchia, introducendovi insieme coi vantaggi anche gli svantaggi e i difetti suoi propri, e lasciandovi in certo modo la sua impronta. Perciò quando invitiamo a studiare le trasformazioni che l’ordinamento capitalistico dell’economia sortì dopo il tempo di Leone XIII, non solamente procuriamo il bene di coloro che abitano in paesi dominati dal capitale e dall’industria, ma di tutto intero il genere umano.
E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi ha solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza, dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.
Questo potere diviene più che mai dispotico in coloro che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni, dominano il credito e padroneggiano i prestiti; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso di cui vive l’organismo economico e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia; sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.
Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica dell’economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza.
A sua volta, poi, la concentrazione stessa di ricchezze e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica: di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze e della sua influenza nelle competizioni economiche: infine si lotta tra gli stessi Stati, o perché le nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini o perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte fra le nazioni.
Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita economica sono poi quelle che voi stessi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, vedete e deplorate. La libera concorrenza si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata l’egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura inesorabile, crudele. A ciò si aggiungono i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servigi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa: quale, per citarne uno solo tra i più importanti, l’abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizioni umane, mentre dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia. Nell’ordine poi delle relazioni internazionali, da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte, il nazionalismo o anche l’imperialismo economico; dall’altra, non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro, per cui la patria è dove si sta bene.
Ora, con quali mezzi si possa rimediare a un male così profondo, già l’abbiamo indicato nella seconda parte di questa Enciclica, dove ne abbiamo trattato di proposito sotto l’aspetto dottrinale: qui Ci basterà ricordare la sostanza del Nostro insegnamento. Poiché l’ordinamento economico moderno è fondato particolarmente sul capitale e sul lavoro, devono essere conosciuti e praticati i precetti della retta ragione, ossia della filosofia sociale cristiana, concernenti i due elementi menzionati e le loro relazioni. Così, per evitare l’estremo dell’individualismo da una parte, come del socialismo dall’altra, si dovrà soprattutto avere riguardo del pari alla doppia natura, individuale e sociale, propria tanto del capitale o della proprietà, quanto del lavoro. Le relazioni quindi fra l’uno e l’altro devono essere regolate secondo le leggi di una esattissima giustizia commutativa, appoggiata alla carità cristiana. È necessario che la libera concorrenza, confinata in ragionevoli e giusti limiti, e più ancora che la potenza economica siano di fatto soggette all’autorità pubblica, in ciò che concerne l’ufficio di questa. Infine le istituzioni dei popoli dovranno venire adattando la società tutta quanta alle esigenze del bene comune, cioè alle leggi della giustizia sociale; onde seguirà necessariamente che una sezione così importante della vita sociale, qual è l’attività economica, verrà a sua volta ricondotta ad un ordine sano e bene equilibrato.
Non meno profonda che quella dell’ordinamento economico è la trasformazione che dal tempo di Leone XIII ebbe il socialismo, con il quale specialmente lottò il Nostro Predecessore. Allora infatti esso poteva quasi dirsi uno e propugnatore di principi dottrinali ben definiti o raccolti in un sistema: ora invece va diviso in due partiti principali, discordanti per lo più fra loro e inimicissimi, ma pur tali che nessuno dei due si scosta dal fondamento proprio di ogni socialismo, e contrario alla fede cristiana.
Un partito infatti del socialismo andò soggetto alla trasformazione stessa che abbiamo spiegato sopra, rispetto all’economia capitalista, e precipitò nel comunismo; il quale insegna e persegue due punti, né già per vie occulte o per rigiri, ma alla luce aperta e con tutti i mezzi, anche più violenti: la più accanita lotta di classe e l’abolizione assoluta della proprietà privata. E nel perseguire i due intenti non v’ha cosa che esso non ardisca, niente che rispetti; e dove si è impadronito del potere, si dimostra tanto crudele e selvaggio, che sembra cosa incredibile e mostruosa. Di che sono prova le stragi spaventose e le rovine ch’esso ha accumulato sopra vastissimi paesi dell’Europa orientale e dell’Asia. Quanto poi sia nemico dichiarato della santa Chiesa e di Dio stesso, è cosa purtroppo dimostrata dall’esperienza e a tutti notissima. Non crediamo perciò necessario premunire i figli buoni e fedeli della Chiesa contro la natura empia e ingiusta del comunismo; ma non possiamo tuttavia, senza un profondo dolore, vedere l’incuria e l’indifferenza di coloro che mostrano di non dar peso ai pericoli imminenti, e con una passiva fiacchezza lasciano che si propaghino per ogni parte quegli errori, da cui sarà condotta a morte la società tutta intera con le stragi e la violenza. Ma soprattutto meritano di essere condannati coloro che trascurano di sopprimere o trasformare quelle condizioni di cose, che esasperano gli animi dei popoli e preparano con ciò la via alla rivoluzione e alla rovina della società.
Più moderato è l’altro partito che ha conservato il nome di socialismo; giacché non solo professa di rigettare il ricorso alla violenza, ma se non ripudia la lotta di classe e l’abolizione della proprietà privata, le mitiga almeno con attenuazioni e temperamenti. Si direbbe quindi, che, spaventato dai suoi principi e dalle conseguenze che ne trae il comunismo, il socialismo si pieghi e in qualche modo si avvicini a quelle verità che la tradizione cristiana ha sempre solennemente insegnate; poiché non si può negare che le sue rivendicazioni si accostino talvolta, e molto da vicino, a quelle che propongono a ragione i riformatori cristiani della società.
La lotta di classe, infatti, quando si astenga dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione fondata nella ricerca della giustizia: discussione che non è certo quella felice pace sociale che tutti vagheggiano, ma che può e deve essere un punto di partenza per giungere alla mutua cooperazione delle classi. Così anche la guerra dichiarata alla proprietà privata si viene sempre più tranquillando e restringendo a tal segno, che infine non viene più assalita in sé la proprietà dei mezzi di produzione, ma una certa egemonia sociale, che la proprietà contro ogni diritto si è arrogata e usurpata. E infatti tale supremazia non deve essere propria dei semplici padroni, ma del pubblico potere. Con ciò si può giungere insensibilmente fino al punto che le massime del socialismo più moderato non discordino più dai voti e dalle rivendicazioni di coloro che, fondandosi sui principi cristiani, si studiano di riformare la società umana. E in verità si può ben sostenere, a ragione, esservi certe categorie di beni da riservarsi solo ai pubblici poteri, quando portano seco una tale preponderanza economica che non si possa lasciare in mano ai privati cittadini senza pericolo del bene comune.
Cotali giuste rivendicazioni e desideri non hanno più nulla che ripugni alla verità cattolica e molto meno sono rivendicazioni proprie del socialismo. Quelli dunque che a queste sole mirano non hanno ragione di dar il nome al socialismo.
Né perciò si dovrà credere che quei partiti o gruppi di socialisti, che non sono comunisti, siansi ricreduti tutti a tal segno, o di fatto o nel loro programma. No, perché essi per lo più non rigettano né la lotta di classe, né l’abolizione della proprietà, ma solo la vogliono in qualche modo mitigata. Sennonché, essendosi i loro falsi principi così mitigati e in qualche modo cancellati, ne sorge, o piuttosto viene mosso da qualcuno, il dubbio: se per sorte anche i principi della verità cristiana non si possano in qualche modo mitigare o temperare, per andare così incontro al socialismo e quasi per una via media accordarsi insieme. Certuni nutrono la vana speranza di trarre a noi in questo modo i socialisti. Vana speranza, diciamo. Quelli, infatti, che vogliono essere apostoli tra i socialisti, devono professare apertamente e sinceramente, nella sua pienezza e integrità, la verità cristiana, ed in nessuna maniera usare connivenza con gli errori. Se veramente vogliono essere banditori del Vangelo, devono studiarsi anzitutto di far vedere ai socialisti che le loro rivendicazioni, in quanto hanno di giusto, si possono molto più validamente sostenere coi principi della fede cristiana e molto più efficacemente promuovere con le forze della cristiana carità.
Ma che dire nel caso che, rispetto alla lotta di classe e alla proprietà privata, il socialismo sia realmente così mitigato e corretto da non aver più nulla che gli si possa rimproverare su questi punti? Ha con ciò forse rinunziato ai suoi principi, alla sua natura contraria alla Religione cristiana? Qui sta il punto, su cui molte anime si trovano esitanti. E non pochi sono pure i cattolici, i quali, ben conoscendo come i principi cristiani non possano essere né abbandonati né cancellati, sembrano rivolgere lo sguardo a questa Santa Sede e domandare con ansia che decidiamo se questo socialismo si sia ricreduto dei suoi errori a tal segno, che senza pregiudizio di nessun principio cristiano, si possa ammettere e in qualche modo battezzare. Ora per soddisfare, secondo la Nostra sollecitudine paterna, a questi desideri, proclamiamo che il socialismo, sia considerato come dottrina, sia considerato come fatto storico, sia come “azione”, se resta veramente socialismo, anche dopo aver ceduto alla verità e alla giustizia su quei punti che abbiam detto, non può conciliarsi con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Il suo concetto della società è quanto può dirsi opposto alla verità cristiana.
Infatti, secondo la dottrina cristiana, il fine per cui l’uomo dotato di una natura socievole si trova su questa terra è questo che, vivendo in società e sotto un’autorità sociale ordinata da Dio (Rom. XIII, 1),coltivi e svolga pienamente le sue facoltà a lode e gloria del Creatore; e adempiendo fedelmente i doveri della sua professione o della sua vocazione qualunque sia, giunga alla felicità temporale ed insieme alla eterna. Il socialismo, al contrario, ignorando o trascurando al tutto questo fine sublime, sia dell’uomo come della società, suppone che l’umano consorzio non sia istituito se non in vista del solo benessere.
Infatti, premesso che una divisione conveniente del lavoro, più efficacemente che lo sforzo diviso degli individui, assicura la produzione, i socialisti ne deducono che l’attività economica, nella quale essi considerano solamente il fine materiale, deve per necessità essere condotta socialmente. E da siffatta necessità, secondo essi, deriva che gli uomini sono costretti, per ciò che spetta la produzione, a sottomettersi interamente alla società; anzi il possedere una maggiore abbondanza di ricchezze che possa servire alle comodità della vita, è stimato tanto che gli si debbono posporre i beni più alti dell’uomo, specialmente la libertà, sacrificandoli tutti alle esigenze di una produzione più efficace. Questo pregiudizio, dell’ordinamento “socializzato” della produzione portato alla dignità umana, essi credono che sarà largamente compensato dall’abbondanza dei beni che gli individui ne ritrarranno per poterli applicare alle comodità e alle convenienze della vita secondo i loro piaceri. La società dunque, qual è immaginata dal socialismo, non può esistere né concepirsi disgiunta da una costrizione veramente eccessiva, e d’altra parte resta in balìa di una licenza non meno falsa, perché mancante di una vera autorità sociale: poiché questa non può fondarsi sui vantaggi temporanei e materiali, ma solo può venire da Dio Creatore e fine ultimo di tutte le cose (Enc. “Diuturnum“, del 29 Giugno 1881).
Ché se il socialismo, come tutti gli errori, ammette pure qualche parte di vero (il che del resto non fu mai negato dai Sommi Pontefici), esso tuttavia si fonda in una dottrina della società umana, tutta sua propria e discordante dal vero cristianesimo. Socialismo religioso e socialismo cristiano son dunque termini contraddittori: nessuno può essere buon cattolico ad un tempo e vero socialista.
Tutte queste verità pertanto, da Noi richiamate e confermate solennemente con la Nostra autorità, si debbono applicare del pari a una cotale nuova forma o condotta del socialismo, poco nota finora in verità, ma che al presente si va diffondendo tra molti gruppi di socialisti. Esso attende soprattutto a informare di sé gli animi ed i costumi; particolarmente alletta sotto colore di amicizia la tenera infanzia per trascinarla seco, ma abbraccia altresì la moltitudine degli uomini adulti: per formare infine l’”uomo socialista”, sul quale vuole appoggiare l’umana società plasmata secondo le massime del socialismo.
Sennonché, avendo Noi spiegato già largamente nella Nostra Enciclica “Divini illius Magistri“ su quali principi si fondi e quali fini intenda l’educazione cristiana (Enc. “Divini illius Magistri“, del 31 Dicembre 1920), è tanto chiaro ed evidente che ad essi contraddice quanto fa e cerca il socialismo educatore, che non occorre altra dichiarazione. Ma quanto siano gravi e terribili i pericoli che questo socialismo porta seco, sembra che l’ignorino o non vi diano gran peso coloro che non si curano punto di resistervi con zelo e coraggio secondo la gravità della cosa. È Nostro dovere pastorale quindi mettere costoro in guardia dal danno gravissimo e imminente e si ricordino tutti che di cotesto socialismo educatore è padre bensì il liberalismo, ma l’erede è e sarà il bolscevismo.
Da ciò, Venerabili Fratelli, voi potete intendere con dolore vediamo, in alcuni paesi specialmente, non pochi dei Nostri figli — di cui non possiamo persuadersi che abbiano abbandonato del tutto la vera fede e la buona volontà — aver disertato il campo della Chiesa per passare alle file del socialismo: gli uni dichiarandosi apertamente socialisti e professandone le dottrine; gli altri per indifferenza o anche con ripugnanza, per aggregarsi alle associazioni che si professano o sono di fatto socialistiche.
Con paterna ansietà Noi andiamo pensando e investigando come sia potuta accadere una tanta aberrazione, e Ci sembra di sentire che molti di essi Ci rispondano a loro scusa: la Chiesa e coloro che alla Chiesa si proclamano più aderenti, favoriscono i ricchi, trascurano gli operai e non se ne danno pensiero alcuno: perciò aver essi dovuto, a fine di provvedere a sé, aggregarsi alle schiere dei socialisti.
Ed è questa, senza dubbio, cosa ben lacrimevole, Venerabili Fratelli, che vi siano stati e ancora vi siano individui che, dicendosi cattolici, quasi non ricordino la legge sublime della giustizia e della carità, la quale non solamente ci prescrive di dare a ciascuno quello che gli tocca, ma ancora di soccorrere ai nostri fratelli indigenti come a Cristo medesimo (Lett. di San Giacomo, cap. 2); e, cosa ancora più grave, per ansia di guadagno non temono di opprimere i lavoratori. E vi ha pure chi abusa della Religione stessa, facendo del suo nome un paravento alle proprie ingiuste vessazioni per potersi sottrarre alle rivendicazioni pienamente giustificate degli operai. Noi non resteremo mai di riprovare una simile condotta, poiché sono costoro la causa per cui la Chiesa, senza averlo punto meritato, ha potuto aver l’apparenza, e quindi essere accusata, di prendere parte per i ricchi e di non aver alcun senso di pietà per le pene di coloro che si trovano come diseredati della loro parte di benessere in questa vita. Ma che questa apparenza e questa accusa sia immeritata ed ingiusta, la storia tutta della Chiesa dà testimonianza; e l’Enciclica stessa, di cui celebriamo l’anniversario, è la più splendida prova della somma ingiustizia di simili contumelie e calunnie, avventate contro la Chiesa e i suoi insegnamenti.
Ma per quanto provocati dagli insulti e trafitti nel cuore di padre, siamo ben lungi dal rigettare da Noi questi figli, sebbene così miseramente traviati, e lontani dalla verità e dalla salvezza. Con tutto l’ardore anzi e con tutta la più viva sollecitudine li invitiamo a ritornare al materno seno della Chiesa. E Dio faccia che prestino orecchio alla Nostra voce! Ritornino donde sono partiti, alla casa cioè del Padre e ivi perseverino dove è il loro proprio luogo, tra le file cioè di coloro che seguendo gli insegnamenti di Leone XIII, da Noi ora solennemente rinnovati, si studiano di restaurare la società secondo lo spirito della Chiesa, rassodandovi la giustizia e la carità sociale. E si persuadano che non potranno mai trovare altrove una felicità maggiore anche su questa terra, se non vicino a Colui che per amore nostro “essendo ricco, diventò povero, affinché della povertà di Lui diventassimo ricchi“ (II Cor. VIII, 9), che fu povero e in mezzo alle fatiche fino dalla Sua giovinezza, che invita a Sé tutti gli oppressi dalla fatica e dalle afflizioni per dar loro un pieno conforto nella carità del Suo Cuore (Matth. XI, 28); e che infine, senza eccezione di persone, richiederà di più da coloro ai quali avrà dato di più (Luc. XII, 48) e “renderà a ciascuno secondo il suo operato“ (Matth. XVI, 27).
Ma se consideriamo la cosa con più diligenza e più a fondo, chiaramente vediamo che a questa tanto desiderata restaurazione sociale deve precedere l’intero rinnovamento dello spirito cristiano, dal quale purtroppo si sono allontanati tanti di coloro che si occupano di cose economiche; se no, tutti gli sforzi cadranno a vuoto, non costruendosi l’edificio su la roccia, ma su la mobile sabbia (Matth. VII, 24).
E infatti, Venerabili Fratelli e diletti Figli, abbiamo dato uno sguardo all’odierno ordinamento economico e lo abbiamo trovato guasto profondamente. Di poi, richiamato a nuovo esame il comunismo e il socialismo, e tutte le loro forme, anche più mitigate, abbiamo trovato che sono molto lontani dagli insegnamenti del Vangelo.
Quindi, per usare le parole del Nostro Predecessore, “se un rimedio si vuole dare alla società umana, questo non sarà altro che il ritorno alla vita e alle istituzioni cristiane“ (Enc. “Rerum novarum“).Giacché questo solo può distogliere gli occhi degli uomini affascinati e al tutto immersi nelle cose transitorie di questo mondo, e innalzarli al Cielo: questo solo può portare efficace rimedio alla troppa sollecitudine per i beni caduchi, che è l’origine di tutti i vizi. Del quale rimedio, chi può negare che la società umana non abbia al presente un sommo bisogno?
Quasi tutti si atterriscono unicamente degli sconvolgimenti, delle stragi, delle rovine temporali. Ma se consideriamo i fatti con occhio cristiano, com’è dovere, che cosa sono tutti questi mali in paragone dellarovina delle anime? Eppure si può dire senza temerità essere tale oggi l’andamento della vita sociale ed economica, che un numero grandissimo di persone trova le difficoltà più gravi nell’attendere a quell’uno necessario, all’opera capitale fra tutte, quella della propria salute eterna.
Di queste innumerevoli pecorelle costituiti Pastore e Tutore dal Principe dei Pastori, che le ha redente col Suo sangue, non possiamo contemplare con indifferenza tale sommo pericolo; anzi, memori dell’ufficio pastorale, con paterna sollecitudine andiamo di continuo ripensando come recare ad esse aiuto, ricorrendo altresì allo studio indefesso di altri, che vi sono impegnati per debito di giustizia e di carità. Che cosa gioverebbe infatti che gli uomini con un più saggio uso delle ricchezze si rendessero più capaci di fare acquisto anche di tutto il mondo, se poi ne ricevessero danno per l’anima? (Matth. XVI, 26). Che cosa gioverebbe insegnare loro sicuri principi intorno all’economia, se poi si lasciano trascinare dalla sfrenata cupidigia e dal gretto amor proprio a tal segno che pur “avendo uditi gli ordini del Signore, abbiano poi a fare tutto all’opposto“? (Judic. II, 17).
Questa defezione della vita sociale ed economica dalla legge cristiana e l’apostasia che ne consegue di molti operai dalla fede cattolica hanno la loro radice e la loro fonte negli affetti disordinati dell’anima, triste conseguenza del peccato originale che ha distrutto l’equilibrio meraviglioso delle facoltà umane; sicché l’uomo facilmente trascinato da perverse cupidigie viene fortemente spinto ad anteporre i beni caduchi di questo mondo a quelli imperituri del Cielo. Di qui una sete insaziabile di ricchezza e di beni temporali che, se in ogni tempo fu solita a spingere gli uomini a trasgredire le leggi di Dio e calpestare i diritti del prossimo, oggi con il moderno ordinamento economico offre alla fragilità umana incentivi assai più numerosi. E poiché l’instabilità della vita economica e specialmente del suo organismo richiede uno sforzo sommo e continuo di quanti vi si applicano, alcuni vi hanno indurito la coscienza a tal segno che si danno a credere lecito l’aumentare i guadagni in qualsiasi modo e difendere poi con ogni mezzo dalle repentine vicende della fortuna le ricchezze accumulate con tanti sforzi.
I facili guadagni, che l’anarchia del mercato apre a tutti, allettano moltissimi allo scambio e alla vendita, e costoro unicamente agognando di fare guadagni pronti e con minima fatica, con la sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro, con tanta frequenza, che mandano fallite tutte le sagge previsioni dei produttori. Le disposizioni giuridiche poi ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza; giacché vediamo, che, scemato l’obbligo di dare i conti, viene attenuato il senso di responsabilità nelle anime e, sotto la coperta difesa di una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori ingiustizie e frodi, e i dirigenti di queste associazioni economiche, dimentichi dei loro impegni, tradiscono non rare volte i diritti di coloro di cui avevano preso ad amministrare i risparmi. Né per ultimo si può omettere di condannare quegli ingannatori, che, non curandosi di soddisfare alle oneste esigenze di chi si vale dell’opera loro, non si peritano invece di aizzare le cupidigie umane, per venir poi sfruttandole a proprio guadagno.
Questi così gravi inconvenienti non potevano essere emendati, o piuttosto prevenuti, se non da una severa disciplina morale, rigidamente mantenuta dall’autorità sociale. Ma questa purtroppo mancò. Infatti, avendo il nuovo ordinamento economico cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve una coscienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno.
Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono coloro che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo la loro fortuna e, cercando sopra tutte le cose e in tutto i loro propri interessi, non si fecero coscienza neppure dei più gravi delitti contro gli altri. I primi poi che si misero per questa via larga che conduce alla perdizione (Matth. VII, 13), trovarono molti imitatori della loro iniquità, sia per l’esempio della loro appariscente riuscita, sia per il fasto insolito delle loro ricchezze, sia per il deridere che fecero, quasi vittima di scrupoli insulsi, la coscienza altrui, sia infine schiacciando i loro competitori più timorati.
Così traviando dal retto sentiero i dirigenti dell’economia, fu naturale che anche il volgo degli operai venisse precipitando nello stesso abisso, e ciò tanto più che molti padroni di officine sfruttavano i loro operai come semplici macchine, senza curarsi delle loro anime, anzi neppure pensando ai loro interessi superiori. E in verità fa orrore il considerare i gravissimi pericoli a cui sono esposti nelle moderne officine i costumi degli operai (dei giovani specialmente) e il pudore delle giovani e delle donne; gli impedimenti che spesso il presente ordinamento economico, e soprattutto le condizioni affatto irrazionali dell’abitazione, recano alla unione e all’intimità della vita di famiglia; la difficoltà di santificare debitamente i giorni di festa; l’universale indebolimento di quel senso veramente cristiano, onde prima anche persone rozze e ignoranti sapevano elevarsi ad alti ideali, laddove ora è sottentrata l’unica ansia di procacciarsi in qualunque modo la vita quotidiana. E così il lavoro corporale, che la divina Provvidenza, anche dopo il peccato originale, aveva stabilito come esercizio in bene del corpo insieme e dell’anima, si viene convertendo in uno strumento di perversione: la materia inerte, cioè, esce nobilitata dalla fabbrica, le persone invece vi si corrompono e avviliscono.
A una strage così dolorosa di anime, che durando farà cadere vuoto ogni sforzo di rigenerazione della società, non si può rimediare altrimenti se non col ritorno manifesto e sincero degli uomini alla dottrina evangelica, ai precetti cioè di Colui che solo ha parole di vita eterna (Joan. VI, 70), e quindi parole tali che, “passando Cielo e terra, esse non passeranno mai“ (Matth. XXIV, 35). Così quanti sono veramente sperimentati nelle cose sociali, invocano con ardore quella che chiamano perfetta “razionalizzazione” della vita economica. Ma un tale ordinamento, che Noi pure ardentemente desideriamo e con fervido studio promoviamo, riuscirà monco affatto e imperfetto, se tutte le forme dell’attività umana amichevolmente non si accordino ad imitare ed a raggiungere, per quanto è dato all’uomo, la meravigliosa unità del disegno divino: quell’ordine perfetto, diciamo, che la Chiesa a gran voce proclama e la stessa retta ragione richiede: che cioè le cose tutte siano indirizzate a Dio come a primo e supremo termine di ogni attività creata, e tutti i beni creati siano riguardati come semplici mezzi, dei quali in tanto si deve far uso in quanto conducono al fine supremo. Né si deve credere che perciò le professioni lucrative siano meno stimate, ovvero ritenute come poco conformi alla dignità umana. Al contrario, anzi, noi impariamo a riconoscere in esse con venerazione la manifesta volontà del Creatore, il quale ha posto l’uomo sulla terra perché venga lavorando e facendola servire alle sue molteplici necessità. Né si proibisce a coloro che attendono alla produzione, d’accrescere nei giusti e debiti modi la loro fortuna; anzi la Chiesa insegna essere giusto che chiunque serve alla comunità e l’arricchisce con l’accrescere i beni della comunità stessa, ne divenga anch’egli più ricco, secondo la sua condizione; purché tutto ciò si cerchi con il debito ossequio alla legge di Dio e senza danno dei diritti altrui, e se ne faccia un uso conforme all’ordine della fede e della Religione. Se queste norme saranno da tutti in ogni luogo e sempre mantenute, non solamente la produzione e l’acquisto dei beni, ma anche l’uso delle ricchezze, che ora si vede così spesso disordinato, verrà tosto ricondotto nei limiti della equità e della giusta distribuzione. Così alla sordida cupidigia dei soli interessi propri, che è l’obbrobrio e il grande peccato del nostro secolo, si opporrà davvero e col fatto la regola, soavissima insieme ed efficacissima, della moderazione cristiana, onde l’uomo deve cercare anzi tutto il regno di Dio e la sua giustizia, ritenendo per certo che i beni temporali gli saranno dati per giunta, in quanto sarà bisogno, in forza della sicura promessa della liberalità divina (Matth. VI, 33).
Se non che, per assicurare appieno queste riforme è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia la legge della carità, “la quale è il vincolo della perfezione“ (Coloss. III, 14). Quanto dunque s’ingannano quei riformatori imprudenti, i quali solo curando la osservanza della giustizia e della sola giustizia commutativa rigettano con alterigia il concorso della carità! Certo, la carità non può essere chiamata a far le veci della giustizia, dovuta per obbligo e iniquamente negata. Ma quando pure si supponga che ciascuno abbia ottenuto tutto ciò che gli spetta di diritto, resterà sempre un campo larghissimo alla carità. La sola giustizia infatti, anche osservata con la maggiore fedeltà, potrà bensì togliere di mezzo le cause dei conflitti sociali, non già unire i cuori e stringere insieme le volontà. Ora tutte le istituzioni ordinate a consolidare la pace e promuovere il mutuo soccorso tra gli uomini, per quanto sembrino perfette, hanno il loro precipuo fondamento di saldezza nel legame vicendevole delle volontà, onde i soci vanno uniti fra loro; e mancando questo, come spesso vediamo per esperienza, riescono vane le migliori prescrizioni. Una verace intesa di tutti ad uno stesso bene comune non potrà dunque aversi altrimenti, che quando tutte le parti della società sentano di essere membri di una sola grande famiglia e figli di uno stesso Padre Celeste, anzi di essere un solo corpo in Cristo e “membri gli uni degli altri” (Rom. XII, 5), di modo che “se un membro patisce, patiscano insieme tutti gli altri” (I Cor. XII, 26). Allora soltanto i ricchi e gli altri dirigenti muteranno la primitiva loro freddezza verso i loro fratelli più poveri, in calda e operosa affezione; ne accoglieranno le giuste domande con volto benigno e cuore largo; e, al bisogno, ne perdoneranno anche cordialmente le colpe e gli errori. Gli operai poi, dal loro canto, deposto sinceramente ogni sentimento di odio e di invidia, che i fautori della lotta di classe sfruttano tanto astutamente, non solo non disdegneranno il posto loro assegnato dalla Provvidenza divina nella società umana, ma l’avranno anzi in gran pregio perché ben consapevoli che essi cooperano davvero utilmente e onoratamente, ciascuno secondo il proprio grado e ufficio, al bene comune, e seguono in ciò più da vicino gli esempi di Colui che, essendo Dio, ha voluto essere sulla terra un operaio e stimato figlio di un operaio.
Da questa nuova diffusione pertanto dello spirito evangelico nel mondo, che è spirito di moderazione cristiana e di carità universale, sorgerà, speriamo, quella piena e desideratissima restaurazione della umana società in Cristo e quella “pace di Cristo nel regno di Cristo“, a cui fin dall’inizio del Nostro Pontificato abbiamo fermamente proposto di consacrare tutte le Nostre cure e la Nostra pastorale sollecitudine (Lett. Enc. “Ubi arcano“, del 20 Dicembre 1922). E voi pure, Venerabili Fratelli, che insieme con Noi per mandato dello Spirito Santo governate la Chiesa di Dio (Act. XX, 28), con molto lodevole zelo allo stesso intento, come a cosa capitale e al presente più necessaria che mai, indefessamente lavorate, in tutte quante le parti del mondo, anche nei paesi delle Sacre Missioni tra gli infedeli. A voi dunque siano date le meritate lodi ed insieme con voi tutti coloro, siano chierici o laici, che vediamo con gioia esservi ogni giorno compagni e validi cooperatori della stessa opera grandiosa. Diciamo i diletti figli Nostri iscritti all’Azione Cattolica, i quali con particolare studio si occupano con Noi della questione sociale, in quanto questa spetta e compete alla Chiesa per la sua stessa divina istituzione. E Noi li esortiamo tutti caldamente nel Signore che non risparmino fatiche, non si lascino vincere da difficoltà, ma crescano ogni giorno di più nello zelo e nel vigore (Deut. XXXI, 7). Ardua per certo è l’impresa che loro proponiamo, giacché ben sappiamo che da una parte e dall’altra, sia tra le classi superiori come tra le inferiori della società, si oppongono in gran numero ostacoli e difficoltà da superare; ma non perciò si perdano di animo, né si lascino distogliere dal proposito. L’affrontare aspre battaglie è proprio dei cristiani; sostenere gravi fatiche è proprio di quelli che quali buoni soldati di Cristo lo seguono più da vicino (II Tim. II, 3).
Fiduciosi, dunque, nell’onnipotente aiuto di Colui, che “vuole salvi gli uomini tutti“ (I Tim. II, 4),procuriamo con tutte le forze di giovare a quelle anime infelici, lontane da Dio, e distaccandole dalle cure temporali nelle quali troppo si avviluppano, insegniamo loro a volgere con fiducia il desiderio alle cose eterne. Il che talvolta si otterrà più agevolmente di quanto a prima vista non sembrava forse sperabile; poiché, se nell’intimo dell’uomo anche più rotto all’iniquità si nascondono, come faville sotto la cenere, mirabili forze spirituali, testimoni non dubbie di quell’anima naturalmente cristiana, quanto più nel cuore di quei tanti che furono indotti in errore piuttosto per ignoranza e per le circostanze esteriori.
Del resto, alcuni lieti indizi di sociale rinnovamento si presagiscono già nelle stesse ordinate schiere degli operai, tra cui con somma Nostra allegrezza vediamo anche folti stuoli di giovani cattolici, i quali con docilità ricevono le ispirazioni della grazia divina, e con incredibile zelo si studiano di guadagnare a Cristo i propri compagni. Né meritano minor lode i capi delle associazioni operaie, i quali, proposti i propri interessi, si argomentano di conciliare e promuovere con prudenza le loro giuste rivendicazioni con la prosperità di tutta la maestranza, né per qualsivoglia impedimento o aspetto si lasciano rimuovere da questo nobile impiego. Anzi vediamo pure in gran numero giovani destinati o per ingegno o per ricchezze ad occupare tra poco un bel posto tra i dirigenti della società, i quali si applicano con più intenso studio alle questioni sociali e danno liete speranze di dedicarsi un giorno pienamente all’opera della restaurazione sociale.
Le condizioni presenti, o Venerabili Fratelli, ci additano la via che occorre tenere. Come in altre età della storia della Chiesa, noi dobbiamo lottare con un mondo ricaduto in gran parte nel paganesimo. Ora per ricondurre a Cristo le classi diverse di uomini che l’hanno rinnegato, è necessario anzitutto scegliere nel loro seno e formare ausiliari della Chiesa che ne comprendano lo spirito e i desideri e sappiano parlare ai loro cuori con senso di fraterno amore. I primi e immediati apostoli degli operai, devono essere operai; industriali e commercianti, gli apostoli degli industriali e degli uomini di commercio.
A voi soprattutto, Venerabili Fratelli, e al vostro clero spetta cercare con diligenza, scegliere con prudenza, formare ed istruire con opportunità questa schiera di apostoli laici, sia di operai come di padroni. Un’opera certamente ardua s’impone ai sacerdoti e, per sostenerla, tutti coloro che crescono alle speranze della Chiesa debbono venirsi preparando con lo studio assiduo delle cose sociali. Ma soprattutto è necessario che gli uomini da voi applicati in modo particolare a questo ministero si mostrino tali, cioè forniti di tanto squisito senso di giustizia, da opporsi con una costanza al tutto virile alle rivendicazioni esorbitanti ed alle ingiustizie, da qualunque parte vengano: è necessario che siano segnalati per prudenza e discrezione lontana da qualsiasi esagerazione; ma specialmente che siano intimamente compenetrati della carità di Cristo, che sola vale a sottomettere con forza e soavità i cuori e le volontà degli uomini alle leggi della giustizia e dell’equità. Questa è la via già più di una volta raccomandata dal felice esito, e che ora si deve seguire con ogni alacrità e senza titubanze.
Quanto poi ai cari figli Nostri scelti ad un’opera così grande, vivamente li esortiamo nel Signore a consacrarsi totalmente alla formazione delle anime loro affidate; e nell’adempimento di questo officio, il più sacerdotale ed apostolico, con opportunità si prevalgano di tutti i mezzi più efficaci dell’educazione cristiana, come istruzione della gioventù, istituzione di cristiane associazioni, fondazioni di circoli di studio conformi alla regola della fede. Ma soprattutto facciano grande stima e applichino a bene dei loro discepoli quel mezzo preziosissimo di rinnovamento individuale e sociale che Noi abbiamo additato negli Esercizi spirituali con l’Enciclica “Mens Nostra“. Nella quale Enciclica abbiamo esplicitamente ricordato e caldamente raccomandato, con gli Esercizi a pro dei laici tutti, anche i Ritiri in ispecie utilissimi per gli operai (Enc. “Mens Nostra“, del 20 Dicembre 1929). In questa scuola dello spirito, infatti, non solo si formano gli ottimi cristiani, ma anche si addestrano i veri apostoli per qualsiasi condizione di vita, riscaldandoli alla fiamma del Cuore di Gesù Cristo. Da questa scuola, come gli Apostoli del Cenacolo di Gerusalemme, usciranno uomini fortissimi nella fede, di costanza invitta nelle persecuzioni, ardenti di zelo e premurosi unicamente di propagare per ogni dove il regno di Cristo.
E certamente ai nostri tempi più che mai si ha bisogno di tali valorosi soldati di Cristo, che si affatichino con tutte le forze a preservare la famiglia umana dalla spaventosa rovina che la incoglierebbe, se, col disprezzo degli insegnamenti del Vangelo, si lasciasse prevalere un ordine di cose che conculca le leggi della natura non meno che quelle di Dio. La Chiesa di Cristo edificata sulla pietra incrollabile non ha nulla da temere per sé, ben sapendo che le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di essa (Matth. XVI, 18); sicura come è, per la prova dell’esperienza di tanti secoli, che dalle tempeste anche più violente uscirà sempre più forte e gloriosa di nuovi trionfi. Ma il suo cuore di madre non può non commuoversi ai mali innumerevoli che queste tempeste accumulerebbero sopra migliaia di uomini, e soprattutto agli enormi danni spirituali che ne sgorgherebbero e che porterebbero alla rovina tante anime redente dal Sangue di Cristo.
Tutto dunque deve essere tentato per distogliere la società umana da mali così grandi. A ciò debbono tendere i nostri lavori, a ciò le nostre cure e le nostre continue e ferventi preghiere a Dio. Perché mediante il soccorso della grazia divina noi abbiamo in mano la sorte della famiglia umana.
Non permettiamo dunque, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che i figliuoli di questo secolo si mostrino più accorti nel loro genere, che noi i quali per divina bontà siamo i figliuoli della luce (Lue. XVI, 8). Noi infatti vediamo con quale meravigliosa sagacia si adoperino a scegliersi aderenti operosi e formarseli atti a diffondere sempre più largamente i loro errori fra tutte le classi e in tutte le parti del mondo. Quando poi prendono ad impugnare la Chiesa di Cristo, li vediamo mettere a tacere le varie loro interne dissensioni e costituire come un solo concorde esercito per raggiungere con l’unione delle forze il comune intento.
Ora, nessuno certamente ignora a quante e quanto grandi opere si estenda, dappertutto, l’indefesso zelo dei cattolici, sia in ordine al bene sociale ed economico, sia in materia scolastica e religiosa. Ma questa azione mirabile e faticosa non di rado perde di efficacia per la troppa dispersione delle forze. Si uniscano dunque tutti gli uomini di buona volontà, quanti sotto la guida dei Pastori della Chiesa amano combattere questa buona e pacifica battaglia di Cristo: e tutti sotto la guida ed il magistero della Chiesa, secondo il genio, le forze, la condizione di ciascuno, cerchino di contribuire in qualche misura a quella cristiana restaurazione della società, che Leone XIII auspicò con l’immortale Enciclica “Rerum novarum“; non mirando a se stessi e agli interessi propri, ma a quelli di Gesù Cristo (Phil. II, 21); non pretendendo d’imporre le proprie idee, comunque belle ed opportune esse sembrino, ma mostrandosi disposti a rinunziarvi per il bene comune, affinché in tutto e sopra tutto Cristo regni, Cristo imperi, al quale sia “onore e gloria e potere nei secoli” (Apoc. V, 13).
Conclusione.
E perché così felicemente avvenga, a voi tutti, Venerabili Fratelli e diletti Figli, quanti fate parte dell’immensa famiglia cattolica a Noi affidata, ma con un particolare affetto del Nostro cuore agli operai e a quanti altri lavorano nelle arti manuali, dalla divina Provvidenza a Noi più vivamente raccomandati, come pure ai padroni ed imprenditori cristiani, impartiamo con paterno amore l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il dì 15 Maggio del 1931, del Nostro Pontificato l’anno X.
Pio PP. XI.